giovedì, Marzo 28, 2024
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Ottavio Trento, il conte benefattore: il suo lascito arricchì Vicenza

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Se a Vicenza esiste un’opera di Antonio Canova, l’unica, lo si deve a un atto di generosità. Siamo nel 1810, il conte Ottavio Trento nello scrivere il suo testamento dispone quale lascito a favore della città un cospicuo patrimonio costituito dall’ex convento delle Benedettine di San Pietro (il potente ordine monastico che aveva nello stemma le chiavi pietrine) assieme agli edifici annessi, alla chiesa e al chiostro, oltre a un’ingente somma di denaro. La volontà del patrizio era che quel compendio immobiliare venisse adibito alla costituzione di una “Casa di ricovero e industria” da destinare ad una fetta consistente di poveri della sua città, in particolare agli artigiani tessili e alle loro famiglie, ridotti in miseria con l’avvento della prima rivoluzione industriale che aveva portato lo sconvolgimento dei processi produttivi mediante l’impiego dei macchinari. In quella ‘casa comune’ che veniva messa a loro disposizione potevano trovare un alloggio e intraprendere nuove attività.

Il conte Ottavio Trento era divenuto proprietario di quei beni nel 1807 dopo che se li era aggiudicati ad un’asta pubblica indetta dall’amministrazione napoleonica. Erano una parte di tutti quei beni che Napoleone, dopo aver occupato il nord Italia ed il Veneto, andava sistematicamente a sequestrare agli ordini religiosi e, una volta incamerati dall’erario, li andava a cedere al miglior offerente per raccogliere i fondi che servivano a finanziare le sue costose campagne militari.

ottavio trento
Ritratto di Ottavio Trento e il monumento funebre di Antonio Canova commissionato dal Municipio

In realtà era stato lo stesso Imperatore, con malcelato interesse e ben conoscendo la ricchezza del nobiluomo vicentino, a suggerire al conte Trento di elargire una donazione alla sua città. Francesco Formenton nelle “Memorie storiche della città di Vicenza” così descrive il loro incontro che avvenne in occasione di una serata di gala tenutasi presso il Teatro Olimpico: “Veniva da Verona a Vicenza Napoleone a dì 28 novembre 1807 alle ore 7 della sera.

Erano seco lui la regina di Baviera ed altri personaggi. Prese alloggio nel palazzo del conte Thiene a porta Castello. Si portò al teatro Olimpico splendida- mente illuminato. Ne ammirò la bellezza e lo spettacolo meraviglioso. Chiese ivi del Conte Ottavio Trento e gli domandò se era quel ricco signore di Vicenza. Rispose il Trento: Dinanzi alla Maestà Vostra io non ho uso di chiamarmi né ricco né signore. Napoleone eccitò il Trento a volere impiegare una parte della sua ricchezza a benefizio della patria.”

Il conte Ottavio aveva già avuto modo di conoscere Napoleone Bonaparte in un’altra sua visita a Vicenza il 27 settembre dello stesso anno; egli era l’uomo più ricco della città, esponente di una illustre e antica casata (i Morlini originari da Trento e presenti a Vicenza fin dal 1400), e scomparve l’8 maggio 1812 all’età di 83 anni senza lasciare discendenti di- retti. “Il testamento suo del 28 dicembre 1810 fu il più clamoroso di questa città, pei molti e ricchi legati e per un piccolo retaggio lasciato al legatario universale signor Giovanni Bertolini” annota il Formenton.

La città gli tributò solenni onori con un imponente funerale, il Municipio volle inoltre commissionare un monumento a ricordo perpetuo della sua magnanimità e pensò di affidare l’incarico a colui che era uno degli artisti più rinoma- ti dell’epoca: lo scultore Antonio Canova. Gli antefatti che descrivono la commissione e l’iter di esecuzione dell’opera da parte di Canova sono contenuti in alcune lettere inedite che l’abate Antonio Magrini raccolse e pubblicò in un volumetto nel 1854, offrendolo come dono per il matrimonio del conte Felice Piovene. Da tale corrispondenza si evince che la Municipalità aveva formalmente incaricato Francesco Testa, studioso e letterato vicentino, a fare da tramite per i contatti con lo scultore.

In queste undici lettere che vanno da settembre 1812 a luglio 1815, Canova risponde a Testa e, pur mancando la parte di corrispondenza che il Testa gli inviò, esse sono sufficienti ad illustrare la genesi dell’opera.

Considerato il massimo esponente del neoclassicismo in scultura Canova, che era nato a Possagno nel trevigiano nel 1757, seppe eccellere con la bravura e la sua tecnica che aderiva ai canoni della bellezza classica antica. Canova diventò un artista molto richiesto, il che lo portò a viaggiare in Francia, Inghilterra, Russia ed infine a Roma dove aprì il suo studio e diventò più che famoso.

Importanti mecenati e figure di spicco di fama internazionale non mancarono di commissionargli numerose opere: dagli Asburgo ai Borbone, dalla corte pontificia fino alla nobiltà veneta, romana e russa. Uno dei più importanti committenti e ammiratori fu senza dubbio Napoleone che lo volle a Parigi e al quale Canova dedicò alcune sue opere. Immortalò anche George Washington, primo presidente degli Stati Uniti d’America, in una scultura che gli fu commissionata nel 1816 e che sfortunatamente andò poco dopo distrutta. Proprio in data 5 maggio 1812 Napoleone aveva nominato Antonio Canova, “nativo di Possagno, compreso nel Dipartimento del Bacchiglione” cavaliere dell’Ordine Reale della Corona di Ferro. Nel settembre 1812, in una prima lettera di risposta al Testa, lo scultore, a cui era stato richiesto di eseguire l’opera per il Trento, si dichiarava occupatissimo in tanti lavori, tanto da essere obbligato a disfarsi di qualche commissione piuttosto che prenderne di nuove.

Egli dimostrava da un lato la sua deferente disponibilità dovuta alla stima e al riguardo che nutriva per il richiedente e gli “onorati individui” vicentini, dall’altro non nascondeva una malcelata riluttanza ad accettare l’incarico, di certo dovuta al fatto che era impegnato in tante altre commissioni senz’altro più prestigiose rispetto alla richiesta di eseguire un’opera per un personaggio ormai defunto, chiusa in un luogo di carità e in una città di provincia.

Lo scultore arrivò a sostenere che avrebbe “gradito assai meglio che in tale occasione si fosse dato animo e incoraggiamento a qualche ingegno delle nostre parti”, suggerendo quindi espressamente “di trovare qualcun altro in mia vece” ovvero qualche artista locale e comunque, diplomaticamente, chiedeva di lasciargli il tempo per pensarci proponendo di riparlare dell’argomento in occasione di un suo prossimo viaggio in Veneto, prima di decidere. Tuttavia l’anno seguente, dopo gli incontri intervenuti e soprattutto non potendo mancare a una richiesta che gli proveniva dal Dipartimento di Vicenza che era la sua patria, Canova si dichiarava disponibile, anzi affermava il suo “ardente desiderio di assecondare la onesta e generosa intenzione di codesti egregi cittadini”, chiedeva però che non gli venissero poste limitazioni di tempo per l’esecuzione, desiderava inoltre di essere fornito di un ritratto del conte.

A questo si provvide ma, passato un altro anno ancora, lo scultore lamentava di essere incorso in un errore: il ritratto che gli era stato recapitato a Roma raffigurava il conte Trento di faccia, mentre lui chiedeva espressamente che fosse ritratto di profilo. Di certo aveva già l’idea di come avrebbe improntato il suo lavoro, desiderava inoltre chiarimenti sulla scala di proporzione del locale in cui l’opera sarebbe stata collocata, nonché conoscere da quale parte la luce sarebbe caduta sul marmo.

I tempi di esecuzione proseguirono a rilento, dalla corrispondenza si evince che l’opera fu eseguita a Roma, e solo nel marzo 1815 Canova confermava che era pressoché terminata “a meno di qualche ultimo tocco” e pronta per essere spedita a Vicenza, non appena la buona stagione fosse stata favorevole; chiedeva che gli venisse recapitata a titolo di acconto la somma di franchi 6.000, ovvero la metà del compenso pattuito, da consegnare a Roma “libera e franca, con la via che a Lei sia più opportuna e comoda e gli altri sei mille secondo l’uso che a me converrà in seguito.” Il pagamento e le sue modalità, oltre allo scambio di convenevoli di rito, è l’argomento delle restanti lettere del Canova che accusò ricevuta di “una cambiale di scudi mille sopra il Banchiere Torlonia il quale ha accettato il pagamento” mentre per il saldo lo pregava di prendere accordi con il conte Tiberio Roberti di Bassano.

La tavola marmorea arrivò a Vicenza il 28 settembre 1815. Il 17 marzo 1816, alla presenza del Granduca di Toscana, venne infine inaugurato il monumento funebre che fu collocato nell’atrio della “Casa di ricovero e industria”, istituzione che a metà ottocento risultava già adibita all’assistenza degli anziani e che prenderà il nome del suo donatore “Istituto Trento”. Il semplice monumento a stele è composto da una tavola di marmo di Carrara in bassorilievo con la parte superiore adorna di elegante cornice a timpano; un tronco di colonna scanellata dorica sopra la quale si alza il busto del conte Ottavio Trento (Vicenza 1729-1812), in basso una cornucopia simbolo di abbondanza e ricchezza, delle quali in vita il conte aveva goduto ma anche saputo elargire col suo animo benevolo; sul lato sinistro seduta su uno sgabello è una giovane donna che rappresenta la Felicità o la Fama che scolpisce con uno stilo sulla colonna le lodi imperiture dell’insigne benefattore, mentre con il braccio sinistro ne cinge il busto in segno di affettuoso compianto e affetto. La tavola è alta metri 2,18 compreso l’ornato superiore, larga metri 1,26 alla base e metri 1,20 sulla cima.

Canova ha creato un monumento dentro il monumento, in cui predomina la bellezza delle forme classiche della donna e della colonna. Con ciò ha superato la difficoltà di rendere in evidenza all’effige del conte, che le fonti dell’epoca descrivono di sgradevole aspetto fisico, ma di animo elevato e che, mentre era ancora in vita, ha esercitato una grande liberalità. L’opera diventa un ritratto morale dell’uomo che ‘’godette delle benedizioni di coloro che, oppressi dalla fredda indigenza, in comodo e sicuro asilo mercè lui ripararono’’ e meritò la perpetua memoria dei posteri. A lavoro ultimato l’autore non mancò di elogiare Vicenza “codesta illustre città, madre di tanti begli ingegni, troppo onorato stimandomi che tanto si doni di pregio ad un’opera mia”.

Da Storie Vicentine n. 6 gennaio/febbraio 2022


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