martedì, Dicembre 3, 2024
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L’oro di Vicenza. Il XVII secolo, l’epoca delle riforme e la passione per lo sfarzo

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Prosegue il viaggio di L’altravicenza con l’oro grazie alla pubblicazione a puntate della tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate sul numero 10, settembre-ottobre 2022, di Storie Vicentine.

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Nozze di Caana dipinto nel 1663 da Luca Giordano (1634 – 1705)

Dopo un florido periodo di benessere, Vicenza, nei primi decenni del XVII secolo, dovette affrontare una situazione aggravata dall’esplosione della peste e dal regresso economico della Serenissima, la cui potenza mercantile si indebolì fino a perdere il suo monopolio. Nonostante la situazione non fosse positiva, tra i patrizi veneziani e i nobili vicentini esplose lo sfarzo. L’aristocrazia veneta visse staccata dalla realtà, quasi in un clima di continuo sfoggio, malgrado i continui decreti suntuari. Questi documenti, i lasciti degli iscritti alle confraternite e i testamenti privati, oggi diventano un utile strumento di indagine per conoscere l’accessorio ornamentale. Da essi apprendiamo che nel Seicento erano in uso le borchie che trattenevano i drappeggi dei tessuti ricamati con oro, argento e impreziositi da pietre, perle e corallo; i bottoni e i bracciali cominciavano ad aumentare a causa del cambiamento delle maniche dell’abito; erano in auge varie fogge di orecchini e collane a catena lunghe o corte, con o senza perle. Gli anelli erano indossati dalle autorità religiose, anche in tutte le dita. Gli uomini indossavano sui cappelli dei fermagli d’oro. I cavalieri esibivano l’oro nelle catene, nelle spade, nei pugnali e nelle cinture. Inoltre, nel gioiello del XVII secolo, continuava ad imperare il soggetto floreale: fiori smaltati o impreziositi dalle pietre preziose, altri ornati da perline infilate su perni d’oro, alcuni aperti e altri in boccio. Per poter individuare con maggiore precisione gli accessori inseriti nel costume del XVII secolo, occorre, ancora una volta, rivolgere l’analisi alla pittura e alle opere a fresco nelle ville dove i pittori, nel ritrarre gli uomini e nel riprodurre le immagini del proprio tempo, ci trasmettono tutta la ridondanza e la ricchezza del Barocco, uno stile che era un tutt’uno con quello sfarzo tanto condannato dalle leggi suntuarie.

Se guardiamo alle testimonianze conservate presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati possiamo vedere ad esempio come nelle Nozze di Cana, dipinto nel 1663 da Luca Giordano (1634 – 1705)63, vengano riprodotte delle fogge di gioielli in stile tardo rinascimentale e orecchini di perle a goccia. I fermagli femminili con cornice a volute e perla pendente, hanno al centro pietre rosso vivo. Il nobile al centro del dipinto indossa un fermaglio rotondeggiante con perla pendente e altre infilate a lato. Il cambiamento che più incise nello stile del gioiello seicentesco venne però dal contributo delle pietre e dalla scoperta di nuovi tagli, una moda questa che imperversava in tutta Europa. In Dama col guanto, eseguito intorno al 1645, Giulio Carpioni (1613 – 1678) ci propone la moderna interpretazione del fermaglio che trattiene il mantello. L’accessorio ha una linea semplificata, con la lastra a base quadrata contenente al centro una mezza sfera che dal colore descritto potrebbe risultare in cristallo di rocca, anticipando il gusto neoclassico ottocentesco. I gioielli riprodotti in queste opere sono propri degli ambienti nobili. Per quanto riguarda il gioiello popolare non abbiamo a disposizione immagini significative, ma possiamo recuperarne informazioni dai documenti dei lasciti. Nonostante le condizioni di vita precarie la popolazione, sia pur su abiti di cotone e lana grezza e a volte a piedi scalzi, non trascurava di ornarsi con nastri e oggetti, di scarso valore materiale, ad imitazione delle forme di quelli ricchi.

oroLa semplice corona del rosario, ornamento dalla duplice funzione di espressione di un atteggiamento religioso e di abbellimento, già diffuso tra i nobili, diventa per le popolane un gioiello ricorrente. Spesso tra i grani vi erano inserite delle medagliette in metallo vile, realizzate in alpacca o piombo e in argento per chi poteva permetterselo. La storia racconta di avvicendamenti che riguardarono le botteghe degli orefici che, tra il Seicento e il Settecento, subirono delle modifiche. Da un documento del 1666 sappiamo che due botteghe, situate sotto il palazzo della Ragione a Vicenza, furono divise in quattro e terminavano al “Canton del Volto di Mezzo”. Circa un secolo dopo, sotto la gastaldia di Antonio Marinali e Francesco Marchioretto, tra il 1746 e 1752, quattro botteghe erano poste sotto la Basilica e risultavano affittate ai signori Simeoni Antonio, Lucillo Pilatti che sarà poi sostituito da Giacinto Vieri, Vincenzo Marangoni, Giacomo Vigorio e Lorenzo Montagnana. Per il periodo che va dal 1746 al 1800 l’attività della fraglia vicentina, i regolamenti emanati per l’attività orafa e, il numero degli iscritti furono sintetizzati nella Relazione delli Pubblici Rappresentanti di Vicenza al Magistero dei Provveditori in Zecca in materia di orefici. Nel 1785 al provveditore in zecca risulteranno 27 iscritti e fra questi non erano rari gli orefici non vicentini.

Il magistero rinnovò e adattò ai tempi i regolamenti fissati nei secoli precedenti, inerenti non solo l’iscrizione alla fraglia ma anche la manifattura degli oggetti in metallo prezioso, riconfermando la proibizione della vendita di oggetti preziosi da parte dei non iscritti alla fraglia e testimoniando un continuo rispetto della materia di vendita dei preziosi. Tuttavia tutte le confraternite, compresa quella degli orefici, furono soppresse nel 1807 da Napoleone; tale decisione non implicò la fine dell’attività orafa che, infatti, venne gestita dal nuovo organismo voluto dall’impero francese: l’Istituto della Camera di Commercio delle arti e manifatture. Per quanto riguarda le fiere, nel XVIII secolo, la municipalità vicentina si preoccupò che fossero spostate da piazza dei Signori a Campo Marzo, allo scopo di sottrarle al pericolo di incendi. Malgrado la soppressione della confraternita, l’oro continuò ad essere lavorato come elemento decorativo ed investimento economico. Le richieste del metallo prezioso nel Seicento erano infatti in continuo aumento e le poche quantità che venivano estratte nel nord Italia, come a Recoaro o a Trissino nel vicentino, erano ormai esaurite ed era impossibile soddisfare la domanda.

Per questo motivo alcune riserve furono create, ancora in età rinascimentale con gli ori conquistati o scambiati durante i viaggi in Oriente, ma il grande contributo aurifero giungeva dall’Europa e dagli stati d’America, soprattutto dal Brasile, facendo anche il giro per il Baltico. Dopo il 1700 l’oro cominciò a diventare ancora più raro ma, malgrado questo, su di esso si basava il commercio internazionale e la Zecca di Venezia, che nel Veneto si occupava di gestire l’oro, diventò un istituto autorevole, un punto di riferimento per quasi tutti gli altri organismi operanti nel territorio. L’interesse al metallo non era più riservato a pochi: i grandi stati sentirono il bisogno di possedere una riserva aurea, i singoli cittadini, da parte loro, iniziarono a considerare l’oro un investimento oppure un elemento di distinzione e di piacere tutto personale. Nel XVIII secolo, a livello ornamentale, il gioiello si alleggerì. Le montature dei gioielli con pietre diventarono più delicate in modo da esaltare al massimo lo splendore delle pietre incastonate una vicina all’altra.

Comparvero i motivi floreali e gli orecchini pendenti a girandola, impreziositi dalle pietre tagliate oppure incise con figure classicheggianti. Il lavoro di sbalzo e fusione con pesanti volute si ridusse. Primeggiava l’eleganza della lavorazione a traforo che alleggeriva l’oggetto e gli forniva nuove trasparenze: i riccioli in filo sembravano dei pizzi sottili che trattenevano zaffiri, rubini e diamanti. Le perle non scomparvero mai dall’accessorio ornamentale, si diffusero quelle scaramazze e il loro coinvolgimento in eleganti abbinamenti raggiunse una notevole sintesi. I grandi cambiamenti riguardavano soprattutto il gioiello profano, il cui lo stile doveva essere adattato alle mutate esigenze del costume. Per l’analisi delle mode di questo periodo storico anche gli affreschi delle ville vicentine diventano lo strumento di ricerca essenziale.

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Affreschi di G.Tiepolo a Villa Valmarana ai Nani

Nel Settecento le famiglie Loschi, Valmarana e Cordellina decisero di affrescare le ampie pareti delle loro ville. A svolgere tale compito vennero chiamati due tra i pittori più validi dell’epoca quali Giambattista Tiepolo (1696 – 1770) e il figlio Giandomenico (1727 – 1804). Tra i due Tiepolo esiste una sostanziale differenza: il padre dedicherà la sua vita ad interpretare il mito di corte e a ritrarne i protagonisti, mentre Giandomenico lentamente si allontanò da questa linea espressiva influenzato dal nuovo e intenso fermento popolare. Proprio per queste due diverse posizioni, ci troviamo di fronte a due diverse raffigurazioni del gioiello: quello nobiliare, quasi “mitico” realizzato dal Tiepolo padre e quello maggiormente realistico ritratto dal Tiepolo figlio.

Il ciclo di affreschi di Giambattista Tiepolo a villa Loschi Zileri Motterle, a Monteviale di Vicenza, costituisce una delle più ricche fonti documentarie sul gioiello in voga nel Settecento. Giambattista Tiepolo portò a termine la decorazione dello scalo- ne e della sala principale della villa nell’autunno del 1734. Tra i numerosi dipinti l’affresco raffigurante la Liberalità dispensatrice di doni, costituisce la più esaustiva raccolta di oreficeria del Settecento riprodotta con la tecnica pittorica. In questa opera si può osservare una cintura a fascia con un ritratto a cammeo che sorregge parte del costume della Liberalità che raccoglie e dispensa perle e pietre preziose. Nell’Umiltà scaccia la Superbia, altro affresco eseguito da Giambattista nel 1734, nella sala principale della villa LoschiZileri, la figura della Superbia è vestita in rosso con file di perle rade che attraversano il corpo. L’Umiltà, con lo sguardo abbassato, si priva dei gioielli allontanandoli con il piede. In questo affresco il Tiepolo utilizza i gioielli non come oggetto d’ornamento, ma come metafora di comportamenti superbi e altezzosi.

La decorazione ad affresco di Giambattista Tiepolo presso la villa Cordellina, a Montecchio Maggiore, si estende sulle pareti e sul soffitto del salone. La data di esecuzione degli affreschi, commissionati dal celebre giureconsulto Carlo Cordellina, si desume da una lettera dello stesso Giambattista Tiepolo, indirizzata a Francesco Algarotti da Montecchio il 26 ottobre 1743, nella quale il pittore informa il suo corrispondente di aver già terminato otto chiaroscuri e la metà del soffitto, tanto che spera di completarlo per il 10 o il 12 novembre: nessun accenno agli affreschi parietali che si deve quindi presumere siano stati eseguiti nella primavera dell’anno seguente. Sulla parete est è raffigurata la Continenza di Alessandro dove la dama dal volto supplichevole indossa degli ori sul capo che fungono da fermaglio per trattenere il mantello.

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Contadini a mensa di Giandomenico

Quest’ultimo è esaltato al centro da un cammeo con cornice decorata a figure. La bianca figura nella pietra dura si intona con le tre perle pendenti alla base (stile a girandola). Il mantello è trattenuto da due borchie laterali ovali, tra di loro unite da una fascia arricchita da perle e pietre incastonate. I gioielli realizzati sugli affreschi di villa Cordellina si fanno visibilmente più ricchi e abbondanti, alcuni particolari sono frutto dell’immaginazione del pittore stesso, tuttavia lo stile ricorda quello del tempo. In villa Valmarana ai Nani operarono, nel 1757, entrambi i Tiepolo ed è possibile notare le differenze prima descritte. Il committente volle per la decorazione della palazzina scene tratte dai poemi classici e cinquecenteschi, più consone all’aulico pennello di Giambattista, e per la foresteria per lo più episodi di vita quotidiana, dove il trentenne Giandomenico avrebbe potuto dare sfoggio della sua collaudata vena pittorica estremamente realistica. In Contadini a mensa di Giandomenico la contadina indossa un abito popolare veneto e porta al collo sottili fili di stoffa o catena leggera che cadono a coprire il petto e una collana in corallo che stringe il collo.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


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