Mario Rigoni Stern, l’autore che più di ogni altro ha parlato di valori umani e civili attraverso storie di natura, boschi e montagne, passando per la tragica esperienza della guerra, protagonista di una testimonianza di Gibo Perlotto.
Un libro letto a quattordici anni ancora mi naviga nei circuiti del cuore: “Il sergente nella neve”. Era opera di uno scrittore di Asiago, un certo Mario Rigoni Stern. Alla fine del 1999 avevo terminato il complesso progetto scultorio sulla “Memoria Contadina”. Le trentadue sculture mi avevano impegnato per circa cinque anni. Finito il percorso, prima di organizzare delle mostre, cercavo qualcuno che commentasse l’opera.
Avevo incontrato alcuni critici, ma desideravo qualcuno slegato dal mondo dell’arte, incontaminato, una figura rappresentativa dei valori umani veri e profondi nei quali fermamente credevo e credo. Ne parlo con l’amico Padre Livio Pasqualon, francescano della Pieve di Chiampo. Secondo lui potevo chiedere di scrivere una presentazione a Mario Rigoni Stern.
L’idea era allettante, ma non sapevo come avvicinare lo scrittore, mi sembrava di dover affrontare l’Olimpo. Padre Livio disse: Non ti preoccupare, a Mario ci parlo io. Dopo qualche giorno mi richiama per comunicarmi la bella notizia che lo scrittore avrebbe visionato i miei lavori. Spedisco subito una lettera a Mario Rigoni Stern spiegando chi ero e illustrando il mio progetto. Non ho risposta. Passa circa un mese e richiamo Padre Livio raccontandogli l’accaduto. L’ingenuità mi aveva fatto commettere un grande errore, poiché avevo scritto a Mario senza allegare le foto delle sculture. Incredibile! Rispedisco il tutto, ma non arriva alcun segnale. Poi una sera squilla il telefono: Sono Mario Rigoni Stern.
Rispondo: Buona sera professore. Replica prontamente in dialetto stretto: A no’ so mia professore. Altra figuraccia. Non migliorerò mai! Mario mi comunicava che aveva visto le foto delle sculture e che avrebbe scritto qualcosa. Non ricordo se sono stati due o tre i salti di gioia. Dopo una ventina di giorni, mi ritelefona chiedendomi di andare a trovarlo ad Asiago perché voleva conoscermi di persona e consegnarmi quanto aveva scritto. Mi consiglia di portare un paio di scarponi da montagna. La cosa mi sembra strana, ma questo era l’invito preciso: prendere o lasciare. Arrivo ad Asiago nel primo pomeriggio di un mercoledì di giugno. Il cielo è limpido, nell’aria vaga il profumo dell’erba falciata. Mario, in giardino, sta accatastando della legna. Dopo i primi convenevoli, m’invita a mettere gli scarponi perché saremmo andati a camminare nel bosco dietro casa, verso le colonie.
Lo seguo, adattando il passo alle sue soste. Preso da un’ineffabile agitazione, dovuta forse alla paura del confronto, continuo a parlare, probabilmente ripetendomi. A un certo punto Mario si gira e mi dice: No’ sito mia bon de stare in silensio? Ricordo con estrema precisione quel momento perché mi sentii precipitare nel vuoto. Poi fu silenzio a lungo. Solo il rumore dei passi nel gran tempio tra gli abeti. Seguo Mario come si segue una luce. Cammina nel bosco qualche passo avanti, la luce filtrata dagli alberi, imbianca le cose. Mi pare vedere Mario in ritirata nella steppa verso il Don, carico di munizioni e stanchezza e di giovinezza. Un Sergente nella neve che pensa nel freddo silenzio e poi scriverà: La terra è rotonda e noi siamo tra le stelle. Tutti.
Dopo un poco si rigira e mi dice: Ma dèsso no’ pàrlito pì. Non so cosa dire o fare. Continuiamo a camminare. Ci fermiamo dove finisce il bosco. Da qui si può gustare il regalo della Natura nell’orizzonte spalancato sul panorama stupendo. Con la tranquillità e la saggezza di un padre affettuoso, Mario mi rasserena dicendo: Ti ho ripreso perché, prima di parlare, bisogna saper ascoltare il silenzio, le voci del bosco, il resto è in più. Quanto ho imparato in quei pochi istanti! Stavo vivendo una magia. Come lui, quand’era nella steppa, pensavo: Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina.
Mi piacerebbe averlo conosciuto quand’era ragazzo e mi vien voglia di chiedergli perché è cresciuto. Torniamo verso casa. Ci accoglie la moglie Anna. Beviamo un buon caffè, mi consegna il suo scritto e iniziamo a confrontarci sui miei lavori. In calce al suo meraviglioso testo, con un post scriptum annotava:
Caro Perlotto, ho guardato le foto delle opere ed ecco quello che mi è venuto di scriverne. Spero le siano gradite, se no le bruci. Le auguro salute e una bella primavera.
La modestia è la grandezza di un uomo. Aveva scritto per me:
«Nella bottega del padre ha imparato l’arte di lavorare il ferro che assieme a quella della terracotta, è una delle più antiche. Nella memoria però, conserva ancora le immagini e l’uso di oggetti anche questi antichi di secoli, che oggi la tecnologia ha sostituito con altri molto più pratici ed efficaci ma che non hanno, però, l’impronta delle mani dell’uomo. Solo lo spirito di un poeta poteva pensare; fermiamoli nel tempo e nel ricordo con il ferro forgiato al color bianco e battuto sull’incudine; trasmettiamo per sempre il loro ricordo per quello che sono stati nella vita di tanti e per quello che sanno suggerirci. Così ecco la carèga di paglia consunta, il tabàro, la mònega, il bigòlo, la chitarra con le corde rotte e la cassa armonica scollata, il tajapàn… Ora sono fissati per sempre nella solidità del metallo anche per coloro che hanno memoria labile, o per chi non li aveva visti in uso: sono qui a trasmetterci di un tempo povero, sì, ma ricco forse di altre cose che abbiamo perduto.»
Mario presentò, nel 2001, una mia mostra personale alla Rocca di Castello di Arzignano, patrocinata dal Comune con l’organizzazione dell’amico Bepi De Marzi e la collaborazione di Carlo Geminiani. In quell’occasione Mario mi disse: Vengo con entusiasmo a presentarti, ma ti chiedo in cambio un cestino di ciliegie. Era di maggio. Gli portavo ogni anno due bottiglie di vino Durello Passito provenienti da un vitigno autoctono in San Benedetto di Trissino. Di questo vino potevo averne solo quattro bottiglie l’anno: due rigorosamente erano destinate a Mario. A lui sono sempre piaciute le cose semplici, senza mistificazioni, frutto della fatica dell’uomo e della tradizione.
Ho avuto la fortuna di frequentare un “Gigante” e di salire, per brevi tratti, sulle sue spalle e guardare più lontano. Confidenzialmente, Mario mi parlò del premio titolato La Penna d’Oro, ricevuto nel 1992, come massima onorificenza dalla Presidenza della Repubblica. Alla premiazione gli consegnano una pergamena e una busta.
Al momento del rinfresco chiede timidamente a un Ministro presente quando gli avrebbero consegnato la penna. La risposta del Ministro è che il premio è nella busta. Mario tocca la busta ma non avverte nessuna penna. In effetti, il riconoscimento era un premio in denaro.
Mi dice che a lui sarebbe bastata una semplice penna, magari con una dedica del Presidente della Repubblica. L’episodio mi colpì molto e di getto realizzai un’opera di ferro che donai allo scrittore. La scultura rappresenta una piccola tavola con sopra una boccetta d’inchiostro col tappo di sughero, una cannuccia munita di pennino Perry, la sua marca preferita, e un’ape d’oro. La piccola tavola è il mondo. L’inchiostro che, tracimando dalla boccetta si sparge, rappresenta la rigogliosità della scrittura, l’ape è simbolo della musa ispiratrice. Questa è la mia “Penna d’Oro” donata a Mario in segno d’amicizia.
Lui la conservava gelosamente sullo scrittoio. Me la prestò per esporla in alcune mostre. Ho sempre amato i poeti veneti e ho avuto la fortuna di conoscerne personalmente qualcuno tra cui Luigi Meneghello e Andrea Zanzotto.
Con Mario il triumvirato era perfetto per una mia ricerca artistica e una possibile realizzazione scultoria che potesse esprimere la devozione per loro. Nel 2007, dopo la morte di Luigi Meneghello, sentivo l’esigenza di dare vita a questo debito morale e artistico. Iniziai a gettare le basi, con schizzi e disegni preparatori, per realizzare una scultura per ognuno di loro. Dopo aver individuato il tema per Meneghello e Zanzotto, trovai la soluzione anche per Mario. Da un suo racconto scelsi un episodio che gli era accaduto nella campagna di Russia.
Aveva trasformato il contenitore della maschera antigas in un tascapane, dove conservava una copia dell’Iliade, una foto della morosa veneziana, un pettine e pochi generi di sussistenza. Nel racconto, Mario scrive che, perso il tascapane dopo uno scontro, era sicuro che, se qualche russo l’avesse ritrovato, si sarebbe reso conto che tutti erano coinvolti nello stesso dramma. La mia intenzione era di tradurre il tascapane in scultura ferrea, perché fosse riconsegnato a Mario e alla storia.
Ma dovevo parlare con lui per conoscere più dettagli: come fosse fatto, le dimensioni, e tutto il resto. Un tardo pomeriggio di fine ottobre del 2007, fisso un incontro. Mi accompagna in quell’occasione mia moglie Ines. Mario e Anna ci accolgono amorevolmente e ci ritroviamo in cucina a gustare una scodella di zuppa. Espongo l’idea, che Mario accoglie con grande entusiasmo. Le mie domande ottengono risposte che trascrivo, facendo qualche schizzo annotando delle misure.
A un certo punto Mario si alza dicendo di attenderlo. Ritorna dopo qualche minuto tenendo sottobraccio uno zaino e un’edizione dell’Iliade del 1940 per i tipi dell’editore Attilio Barion. Nella stanzetta regna un silenzio mistico saturo di curiosità e stupore. Mario con un sorriso afferma che il tascapane era del medesimo tessuto dello zaino e l’Iliade ha le stesse dimensioni di quella che stava raccontando.
Dice anche che era lo zaino col quale era tornato dalla Russia e che usava saltuariamente per portare a casa della legna dal bosco. Si lascia andare a tanti ricordi soffermandosi sui particolari dello zaino: nodi, cuciture, strappi. Quando lo usava aveva tutto quello che si può avere di peggio. Guardandomi fisso negli occhi mi dice: Questo zaino e l’Iliade voglio darli a te in ricordo.
Anna fa un cenno non so se di approvazione o altro. Io scoppio in lacrime, Ines mi tiene stretta una mano. Ripeto che non posso assumermi la responsabilità di una cosa tanto importante. Nell’accomiatarci saluto Anna e abbraccio forte Mario con la promessa di ritrovarci presto. Scendiamo da Asiago senza più dire una parola e restiamo in silenzio fino a casa. Non ho mantenuto la promessa di ritornare. Mario subito dopo si ammalò. Non lo rividi più. Ho conservato gelosamente lo zaino per un anno e mezzo in un contenitore senza mostrarlo mai a nessuno.
Nel 2009 Bepi De Marzi mi chiese, in nome della famiglia, di poterlo prestare per una mostra che sarebbe stata allestita a Luserna. Ho consegnato lo zaino a condizione che, terminata l’esposizione, mi fosse subito riconsegnato. Finita la mostra, con un’ennesima telefonata Bepi De Marzi mi suggeriva che sarebbe stato d’importanza storica e culturale, che lo zaino fosse ritornato alla famiglia per far parte di una futura fondazione-museo intitolata a Mario. Non ho più rivisto lo zaino. Un paio di mesi fa ho incontrato Gianni Stern, figlio di Mario, al quale ho raccontato il fatto.
Anche lui non sapeva che fine avesse fatto lo zaino, mi ha detto che avrebbe condotto delle ricerche. Poi Alberico, primogenito di Mario, ha ritrovato in soffitta quattro zaini, uno è sicuramente quello cercato. Le profonde fibre dell’anima ancora mi raccontano che l’intenzione originale di Mario, in quel pomeriggio di ottobre del 2007, fu di donarmi lo zaino a ricordo di un incontro durante il quale vivemmo un momento di alta intensità spirituale. Allora non si sapeva, ma sarebbe stato l’ultimo incontro. Lo zaino è a disposizione. Se si dedicherà a Mario una sala commemorativa,
è giusto che ne faccia parte perché, almeno io, lo considerò un Bene dell’Umanità per tutto quello che d’invisibile ma di eterno contiene. Uno zaino non è solo tela grezza, spallacci, stringhe. Uno zaino è chi lo porta sulle spalle, l’intriso del sudore, un cuscino nel riposo, Uno zaino è la fiducia del ritorno. Nel cammino verso casa sentirne l’abbraccio del dolore e della speranza consolante. Sono sicuro che Mario gli parlasse e che lo zaino rispondesse con i versi di Omero. Nei momenti di tensione e di paura e di stanchezza Mario allacciava i legacci consunti in nodi raggrumati. I nodi gli sarebbero serviti a ricordare il dovere di non dimenticare.
Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021