Dell’acquedotto romano di Vicenza rimangono attualmente poche seppur interessanti testimonianze, visibili a fianco della strada omonima in località Lobia. Della parte rimanente del suo percorso effettivo, dalla presa di sorgente al punto di erogazione, poco si sapeva in quanto mancano completamente manufatti visibili o comunque non si trovavano tracce certe.
Pertanto nel tentativo di ricostruire l’esatto percorso dell’acquedotto, abbiamo cercato di utilizzare vari metodi e tecniche, al fine di avere più notizie possibili, che confrontate tra di loro, potessero confermarci le ipotesi che via via formulavamo. Innanzi tutto, ci siamo documentati su precedenti rilievi ed in particolare sull’atlante di Giuseppe Burri del 1884.
È questa una preziosa raccolta di 26 tavole, più una pagina esplicativa, nelle quali l’autore ha segnato in planimetria tutti i ritrovamenti da lui fatti. Purtroppo i riferimenti topografici segnati nelle tavole del Burri sono oggi difficilmente identificabili sul terreno, cosicché non è sempre possibile riferire alle planimetrie attuali il luogo esatto dei numerosi ritrovamenti di piloni dell’acquedotto (circa 150) descritti dal Burri.
In ogni caso la documentazione del Burri ci ha permesso di restringere il campo delle ricerche lungo la linea viale del Brotton, viale Ferrarin, Ponte del Bò, Lobia, Motta di Costabissara. Dato per certo l’ingresso il «città» dell’acquedotto a fianco dell’attuale viale del Brotton, abbiamo cercato di individuare la probabile presa di sorgente, tenendo come punto di riferimento intermedio, gli archi di Lobia.
Sono state utilizzate a questo scopo, planimetrie IGM 1:25.000, planimetrie aereofotogrammetriche 1:10.000 e foto aeree. Con questi strumenti tecnici, si sono potute individuare alcune tracce rettilinee sul terreno, che continuavano in direzione nord-est la linea dell’acquedotto prima citata.
Questa linea, con un a leggera curva verso destra, portava alla località Villaraspa (attuale via S. Cristoforo) in quel di Motta di Costabissara. Qui esiste tuttora un’ampia zona di risorgive naturali caratterizzate dalla erogazione di acqua con portata costante, temperatura e chimismo ottimi.
A questo punto si trattava di trovare in loco delle testimonianze che potessero indicarci il percorso esatto dell’acquedotto. Appena a sud delle risorgive, inglobati nei muri della stalla e del fienile di una vecchia villa di campagna, abbiamo rinvenuto circa una decina di mattoni romani. A questo punto la fiducia sulla linea prima teorizzata, cominciava ad aumentare, anche perché ci portava a passare a ponente del cimitero di Rettorgole (oggi di Motta), dove il Burri diceva di aver rinvenuto delle tubazioni in cotto del diametro pari a quello di un cannone da 86 (calibri?).
La linea proseguiva poi a fianco di una fattoria in località Cadinotte dove, sempre secondo il Burri, fu rinvenuto un pilone dell’acquedotto. A questo punto, la linea è interrotta dal corso del torrente Orolo. Ma proprio a su, sull’estradosso dell’ansa che piega a destra, all’altezza della villa Gaedellina, durante una recentissima aratura profonda, sono venute alla luce numerose pietre calcaree di grosse dimensioni, con tracce di malta, tutte circoscritte nel raggio di un paio di metri, segno evidente che appartenevano ad un manufatto ora interrato, anche perché tale tipo di pietra non è presente naturalmente in zona.
Qui la linea si interrompe nuovamente, in quanto in tempi recenti è stata attivata una cava di argilla che ha fatto sparire ogni traccia possibile. A circa cinquecento metri a monte degli archi di Lobia, su terreno arato, abbiamo rinvenuto lunghe tracce lineari di pietre calcaree, alcuni pezzi di conglomerato del tipo di quello degli archi esistenti ed un pezzo di tegola romana.
A detta dei proprietari del terreno, la fila di pietre riemerge ad ogni aratura. Appena a monte degli archi di Lobia, rovesciati sugli argini dell’Orolo, abbiamo rinvenuto due pilastri abbattuti, ancora completi di rivestimento, segno evidente che il torrente, negli spostamenti tipici di questi corsi d’acqua, ne ha prima eroso le fondamenta e quindi li ha fatti crollare.
A sud di Lobia, in località Ponte del Bò, sul greto dell’Orolo, è visibile un pezzo di pilone, mentre il proprietario di una casa ci ha confermato che durante l’escavazione di una fossa per l’interramento di una cisterna, si sono imbattuti in un pilastro, e sono stati recuperati anche alcuni mattoni e tegole romane. Circa 150 mt a sud di questa casa, nei campi emergono continuamente pietre calcaree. Nell’intersezione tra la linea dell’acquedotto ed il fiume Bacchiglione, sulla sponda del fiume, a livello dell’acqua si intravedono numerosi manufatti in pietra che gli anziani del luogo chiamano «rudere romano».
Un’anziana diceva anche che un tempo vi era un ponticello in legno che collegava la località Ponte del Bò con l’attuale viale Ferrarin e che questo ponte è stato distrutto con la costruzione dell’aeroporto militare. Inoltre, sia a fianco degli archi esistenti in Lobia, sia in località Ponte del Bò, a lato della linea dell’acquedotto, ci è stato riferito dagli abitanti che emergono continuamente tracce di vecchie fondazioni non meglio identificate.
Riprendendo la linea dell’acquedotto al di qua del Bacchiglione, subito prima dell’ingresso dell’Aeroporto, venendo da Vicenza, nel terreno arato ricompaiono lunghe fila di pietre calcaree. Qualche centinaio di metri più avanti, verso Vicenza, il Burri avrebbe ritrovato alcune teste di piloni. Per concludere le testimonianze, ricordiamo ancora che il Burri parla dell’esistenza di un pilone all’inizio del viale del Brotton e la testimonianza di abitanti della zona, che asseriscono di rinvenire con frequenza pietre e cocci di laterizio, durante le escavazioni del terreno.
Del percorso che va dal viale del Brotton, fino al punto di erogazione in città, non abbiamo potuto trovare trac- ce probanti. Possiamo solo indicare come probabile, date le caratteristiche del terreno, un percorso che, attraverso il Bacchiglione a Santa Croce, seguisse l’attuale corso Fogazzaro fino al punto di erogazione in centro. A questo punto, annotate le testimonianze raccolte e trasferiti su planimetria i luoghi di rinvenimento dei reperti, abbiamo potuto constatare l’esattezza della linea prima teorizzata e trovare inoltre conforto dagli andamenti del terreno e dalle caratteristiche idrodinamiche, necessarie all’acquedotto per fornire l’acqua a Vicenza.
A questo scopo abbiamo anche disegnato un profilo longitudinale che dovrebbe ripere con notevole verosimiglianza quello dell’originale. È da far presente che si è posta la quota di erogazione a 36 metri s.l.m. che è quella del punto più alto della città in epoca romana (attuale (40 mt.), mentre per quella di sorgente, si è calcolata una quota posta a 48 metri s.l.m. (46 attuali). L’abbassamento del terreno alla sorgente, si spiega con due fenomeni, uno di carattere tettonico e l’altro erosivo.
La zona è infatti interessata da un progressivo abbassa mento dovuto al piegamento della sinclinale sottostante, mentre la sorgente tende ad infossarsi a causa dell’erosione, seppur lieve, che creano le acque che vi sgorgano. La validità di queste ipotesi è data dal fatto che, collegati i due punti di partenza e arrivo con una retta, questa tange gli archi di Lobia esattamente nella linea di scorrimento dell’acqua.
Pertanto le caratteristiche tecniche dell’acquedotto possono essere così riassunte:
– Lunghezza totale dalle sorgenti al centro città: ml 6.700
– Quota originale alla sorgente: m.s.l.m. 48
– Quota originale all’erogazione: m.s.l.m. 36
– Dislivello totale: mt. 12
– Pendenza media: mt. 1,7%
– Portata media per una cabaletta in cotto delle dimen- sioni di cm. 75 di larghezza e spalle alte cm. 60 con pen- denza e lunghezza sopra definite: c.a. 20 lt/sec.
– Utenti probabili all’epoca: c.a. 5.000
Infine sembra interessante annotare alcune cause che hanno portato alla distruzione delle arcate mancanti. Per la parte a nord di Lobia, la causa è certamente da imputarsi al torrente Orolo che con le variazioni del suo corso ha eroso le basi dei piloni, quindi li ha fatti crollare ed infine sepolti sotto le sue ghiaie. Per la parte più prossima alla sorgente, costruita in tubi di cotto su terrapieno, è più probabile ipotizzare un intervento umano. L’ultimo tratto delle arcate, da Lobia alla città, è stato con tutta probabilità interrato dalla progressiva azione di riporto delle alluvioni dell’Astico – Bacchiglione, fino a che, rimasta esposta la sola parte superiore in cotto, quest’ultima è stata utilizzata come cava di materiale da costruzione.
Per il tratto intercittadino, oltre ad una azione naturale di interramento che si crea attorno alle costruzioni in disuso, sembra evidente l’utilizzazione dei piloni quale fondazione di nuove case in epoche successive o l’uso come cava di materiale da costruzione.
Biografia fondamentale:
Burri G., Acquedotto romano di Vicenza, Rilievi (ms Biblioteca Bertoliana di Vicenza, Racc. Gonzati)
Marchini G.P., Vicenza romana, Verona 1979, pagg. 140 – 144.
Relazione di Mariano Arcaro e Adolfo Trevisan da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022