(Articolo di Massimo Parolin su oratori e boomers da VicenzaPiù Viva n. 294, sul web per gli abbonati).
Don, Don quando xe ghel organiza el torneo de calcet». Non era certo Don Bosco, il giullare di Dio, il buon Don Gabriele, cappellano della parrocchia dei Servi di Vicenza, ma era un grandissimo organizzatore di competizioni sportive dei ragazzi. La tunica nera alzata con le mani fino alle ginocchia, mocassini e via con le pallonate. La vita pomeridiana dei ragazzi boomers si svolgeva quasi interamente all’interno degli oratori. Ce n’erano moltissimi a Vicenza, a San Nicola, al Duomo, al Patronato, l’Araceli, ai Carmini e molti altri.
Punti di riferimento, centri di aggregazione giovanili che consentivano a mamma e papà di poter svolgere il proprio lavoro serenamente, certi che i loro figli erano in un luogo sicuro. Lo stesso veniva vigilato, infatti, da un genitore a turno che rimaneva presente per tutto il tempo, dall’apertura alla chiusura, affinché al suo interno non accadesse nulla né potessero entrare persone poco affidabili, per usare un eufemismo. E non mancavano nemmeno le sospensioni dall’accesso. Chi si comportava male (magari per episodi di nonnismo che a dir la verità non mancavano) veniva annotato in un libricino, portato alla conoscenza del Parroco, che poi determinava per quanto tempo non si sarebbe potuto entrare: una sorta di (buon) ostracismo bosconiano.
Oratori frequentati però, perlopiù, da maschi. Le ragazze latitavano con nostro grande rammarico. Se non una splendida piccola biondina che trattava il pallone con così tanta grazia e talento da essere appellata da tutti noi ‘Platini’. Quando si facevano le squadre e si dovevano scegliere i giocatori, mediante il criterio del pari e dispari «alle bombe del cannon che fa bim bum bam» (onomatopea dalla quale, poi, prese origine il famoso programma televisivo condotto da Bonolis dal 1981), lei era sempre la prima tra le opzioni. E se l’area esterna dell’oratorio non fosse stata adatta per il gioco del calcio, per assenza di porte, si
sfruttavano i pali dei canestri; ossia chi colpiva il palo faceva goal. La nostra precisione balistica diventava così sempre maggiore. Eravamo bravi. Non c’erano le scuole di calcio da pagarsi profumatamente. Noi, ci imparavamo (:0)) da soli. E forse qualche domandina dovremmo farcela sul fatto che abbiamo vinto il Campionato del Mondo nel 1982 e oggi sono due edizioni alle quali non partecipiamo.
Non solo calcio, ovviamente, ma pure basket, pallavolo e all’interno ping pong, biliardo, giochi di società; il bengodi dell’attività ludica adolescenziale. Addirittura una sala musicale con batteria e pianoforte dove poter sognare di diventare dei Duran Duran o degli Spandau Ballet.
Tutto ciò però aveva un prezzo (gnanca el can move la coa par gnente) da pagarsi: un costo religioso evidentemente. L’obbligo della dottrina cristiana al sabato pomeriggio e della messa domenicale (tutti seduti assieme nelle ultime fila dove potevamo sghignazzare
per tutto il tempo). E si doveva frequentare fino ad età avanzata ossia fino alla terza, quarta superiore, mica fino alle elementari.
Eh già! Cosa si sarebbe fatto per giocare a pallone, ma per stare con gli amici questo e altro. E non finiva mica qui, per dirla alla Corrado Mantovani. Ulteriori ‘gabelle’ si profilavano all’orizzonte. La partecipazione ai cosiddetti ritiri spirituali, che solitamente si tenevano al San Gaetano o a Monte Berico, dove si doveva affrontare la confessione, ulteriori messe, discussioni cattoliche. Il tutto era però ripagato con partite nei bellissimi campi interni delle citate istituzioni. Poi lo svolgimento della funzione di chierichetto (derivato dal latino clerum, a sua volta ripreso dal greco kleros, con il significato di ‘parte scelta’), di ausilio al sacerdote durante la messa. E via ad indossare l’abito talare per portare le varie ampolline, il messale, i calici, il campanello e gli altri oggetti liturgici (pensando: e vanti e indrio con ste robe).
E per i più bravi anche il compito di turiferari (addetto al turibolo per le incensazioni), navicellieri (addetto alla navicella), ceroferari (addetto ai candelieri).
Per non parlare del Giovedì Santo e la lavanda dei piedi. Tutti in riga davanti all’altare a farsi sciacquare i fettoni dal celebrante, dopo che la mamma te li aveva accuratamente e previamente grattati con la bruschetta (te ghe le onge nere) e lo spic e span (detersivo granulare per i pavimenti) … par non far bruta figura.
Ma tutto questo aveva un controprezzo anche per il Parroco. Ben sapevamo dove riponeva in sacrestia le particole e le chiavi del mobile. Quindi con il favore del crepuscolo, quando rincasava, saccheggiavamo bassottianamente la dispensa liturgica (eh quando che a ghe voe la ghe voe).
Il controprezzo lo avrebbe anche pagato (salato) quando ci portò in visita a Monterotondo per visitare i sacri luoghi di Padre Pio. Un viaggio della speranza, dieci ore in pullman tra suore, anziani, preghiere e canti religiosi: era troppo pure per noi! Noi ragazzi ad occupare, ovviamente, le ultime fila dell’autobus. Non potevamo non cogliere l’occasione di una vendetta boomer. Muniti di poster delle migliori playmate dell’allora celeberrima rivista Playboy andammo ad affiggerli, dall’interno, nella vetrata posteriore del bus, durante il tragitto autostradale. Per buona parte del viaggio (poi desistemmo per non far finire sul giornale la nostra parrocchia) le risate e gli strombazzamenti divertiti dei conducenti dei TIR che ci superavano, lasciavano basiti ed increduli tutti i passeggeri e il nostro guidatore, inconsapevoli di cotanta immotivata clacsonata.
Bene, secondo voi hanno vissuto meglio la propria gioventù i ragazzi di allora o quelli di oggi con i loro gruppi whatsapp?
Ragionateci sopra, direbbe lo Zaia di Crozza.