giovedì, Novembre 21, 2024
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Chiesuola del Malòn alla Selva di Altavilla

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Non “le campane de Masòn”, com’è nell’originale filastrocca. “Malòn” cantava mia madre per me bambino. Qui ci sono momenti in cui la realtà si sposta di lato e mi lascia libero. Esco dal tempo dei giorni per entrare nel tempo mitico tentando la rigenerazione delle cose. Sento in me una linfa nuova, una vita in esplosione accarezza le antiche presenze consumate. Non succede niente, apparentemente. Però, nel cuore delle cose, gli atomi corrosi si mettono in movimento. Assaporo il respiro dei luoghi che aspettano un incontro, spalancati al sole o nascosti nel verde, accompagnati dal suono delle acque, luoghi che offrono a piene mani una timida ricchezza. Dovrò avere lo sguardo come un raggio che vola verso il bersaglio perché è il modo giusto di guardare mentre sosto in questi luoghi privilegiati. Così posso fissare cose come carri che si mossero, oggetti che servirono, attrezzi che operarono, stie che ospitarono. Tutto ora qui è dormiente, forse lo sarà per sempre, ma rimane il lievito di recuperare memorie e costruire racconti. Non ha campanile la chiesetta del Malòn, non c’è niente che suoni né di giorno né di notte se non la filastrocca antica. Din don, din don. La cantilena mi suona dentro i lontani rifugi del cuore.

Sono salito alla Selva, conosco bene la chiesetta, potevo anche andare a memoria per descriverla. Ma i ricordi a volte ingannano la realtà e così ho scelto il contatto diretto come un pellegrino. Il proprietario del fondo, custode della chiesetta, sta riparando una scala a pioli sul banchetto di legno sotto il portico dell’ex convento. Un saluto, poche parole e mi consegna con fiducia le chiavi. La chiesetta dista pochi passi, il vento stira come un velo di tulle le poche nuvole in cielo. Lungo il basso muro che protegge dal pendio, c’è un rosaio, poi un rosmarino, la rosa del mare, un bordo di giacinti attende il sole caldo per fiorire. Un grande ciliegio fa da guardiano a questo posto carico di misticismo. I passi non fanno rumore sul sagrato d’erba. Verso il paese scende uno scosceso sentiero con quinte di siepi e alberi, sullo sfondo si apre lo scenario di Villa Valmarana, un gregge di case, la collina della Rocca. Sotto il ciliegio è adagiato un antico pilastro di pietra a riquadri che pare una panca con i posti segnati. La chiesetta si proietta sul ripidissimo pendio poggiata su una costruzione a contrafforti che serve da cantina raggiungibile con un breve viottolo tagliato sul monte. La pianta del tempietto è quadrata e si articola, verso mattina, con una minuscola appendice che funge da sagrestia. Due finestre si aprono sull’alba e sul tramonto, verso oriente guarda il piccolo oculo della sagrestia. L’arco di pietra che contorna la porta d’ingresso ha il concio della chiave di volta scolpito con lo stemma del casato dei Morsoletto. Nel cartiglio dello stemma una mano afferra un morso di cavallo. Nella parte inferiore chiude lo stemma un visino d’angelo sorridente. La data, scolpita sull’arco in caratteri romani, riporta al MDCXVI. Lo storico Gaetano Maccà (1740-1824) titola la chiesetta alla Madonna Ausiliatrice annotando che “ avanti era dei Valmarana”.

Sono accesi i soffioni del tarassaco sul prato davanti alla chiesuola, ne ho posti due sulla porta. Ho la tentazione bambina di soffiare. Lo farà il vento disperdendone gli stili delicati.

A primavera, Madre Natura, con la sua generosità estenuante, ingemmerà ancora di botton d’oro il prato. Spalanco i battenti della porta, prima di me entra il sole sbiancando di luce ogni cosa. L’altare è in marmi policromi incastonati dentro profili di pietra e intonaco. Un frontone, come di tempio greco, incornicia un arco che ha al sommo una piccola testa d’angelo ricciuto. Al centro dell’arco, entro una teca, la statua di una Madonna incoronata con Gesù bambino in braccio che stringe un libro nella mano sinistra. Sul lato destro dell’altare, è posato su un capitello di tavole, un Cristo crocefisso ligneo. Senza la croce, solo il corpo allungato con le braccia tese in alto, appena aperte verso il cielo che è la sua casa. Questo Cristo crocefisso conterà più di seicento anni e proviene dall’Agordino. Per molti anni, appeso a un albero, ha protetto l’orto di una casa a Montecchio Maggiore, proprietà di un emigrato bellunese. Lì era rimasto quando il padrone aveva lasciato la casa e lì era stato dimenticato, riverso nel terreno. Il nuovo abitante della casa trova nell’orto quello che sembra solo un ramo caduto da bruciare nel camino. Una specie d’istinto, sollecitato da un altrove misterioso, lo induce a ripulire il pezzo di legno che con meraviglia si rivela un intatto Cristo crocefisso con tutta la sua sofferenza addosso. Niente avviene per caso. Il nuovo abitante è fratello del custode della chiesetta. Il crocefisso, come rinnovando la Via Crucis, è portato dall’orto di Montecchio, fino al nuovo Golgota della collina alla Selva. Adesso, nella piccola chiesa i fedeli si inginocchiano ricordando il sacrificio del ragazzo di Galilea, e soffrono per tutto quel dolore rallegrandosi della resurrezione avvenuta in un lampo di luce e di calore che ancora ci avvolge. Guardo il crocefisso e non mi domando se ha qualità artistiche, però capisco subito che conquista lo spirito. Ed è questa la sua non misurabile qualità soggiacente. Scostando una tenda rossa entro nella minuscola sagrestia. Un cassettone contiene paramenti sacri, tovaglie d’altare ricamate, un messale di cuoio rosso con borchie datato 1877, scritto in latino. Sopra il cassettone ci sono due candelabri, la foto di papa Giovanni, una stampa di San Francesco. Tutto nel silenzio di una luce che continuamente varia. Da una scatola di cartone telato scuro, tolgo la patena dorata e la poso sul piano del cassettone. Poi sfilo il calice d’ottone argentato. L’interno riluce d’oro. Alzo il calice per vederlo meglio senza quasi accorgermi del gesto sacro che sto compiendo. Lo alzo verso la finestrella rotonda che si apre sul timpano della piccola sagrestia. Per un attimo il foro invaso dal sole pare un’ostia di luce appoggiata sul bordo del calice: un’ostia divisa dalla croce dell’inferriata. Una sorta d’improvvisa ierofania. Qui mi sento allineato con il tempo immobile e mi rendo conto di non poterne disporre ma di avere l’avventura di viverlo istante per istante. Ed entro nella pace. L’interno è di una semplicità disarmante, ma anche all’esterno non c’è ricchezza d’architettura, sarebbe inutile. C’è un esaurirsi nobile di linee e di volumi sul sagrato d’erba. Sto bene mentre giro attorno a questi muri che hanno subito gli anni in modo diverso secondo il loro affacciarsi al sole. Richiudo la porta, esce anche il sole, il luogo riprende la sua quiete. Il custode mi ha raggiunto e si tocca con la mano destra il berretto in segno di devozione. Sul tetto la croce di ferro si disegna contro il cielo. La banderuola è bloccata verso sera intanto che il vento soffia da mattina. Tornerò quando fioriranno i narcisi sotto il muro occidentale.

Beata Vergine delle Grazie

Din don Din don
Le campane del Malòn
che le sòna dì e note
e le bate so’ le porte
ma le porte xe de fero
Volta la carta ghe xe on …

Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
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