di Stefano Vaccara
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – È da New York che potrebbe partire la reazione uguale e contraria al trumpismo. Nel primo dibattito per le elezioni a sindaco, Zohran Mamdani ha dominato senza strappi: tono calmo, sorriso, messaggi chiari su affitti, bus e asili gratis. L’indipendente Andrew Cuomo ha recitato il curriculum, il repubblicano Curtis Sliwa non ha chance. Politico l’ha riassunto così: ha vinto Mamdani “restando sul messaggio” e senza errori. L’ampia intervista al New York Times racconta un candidato che prova a trasformare l’opposizione a Trump in progetto di governo. “Il socialismo democratico è l’idea che lo Stato debba garantire a ciascuno una vita di dignità”, dice il potenziale primo sindaco musulmano della storia di NYC. La parola chiave è “dignità”: non i desideri, ma i bisogni – casa, trasporti, cura dell’infanzia – da finanziare “in modo equo”, ma con pragmatismo sui mezzi. È un linguaggio che ribalta l’ossessione di Trump per deportazioni e repressione: qui il centro della politica è invece la vita quotidiana.
Anche sui nodi più sensibili Mamdani non gioca di rimessa. Sulla polizia riconosce che in passato ha usato “un linguaggio” sbagliato, ma tiene il punto su “sicurezza e giustizia”. E sulle accuse di “massimalismo” fiscale risponde da amministratore: sì ad aumenti mirati su top 1% e grandi aziende, ma se si trovano entrate alternative, l’obiettivo resta finanziare asili, bus e congelamento degli affitti. Sul piano politico, Mamdani usa Cuomo come specchio di un certo establishment democratico che ha “creato l’altra parte” e spesso promesso progressi che poi ha rallentato. È la diagnosi che mancava: il trumpismo non nasce nel vuoto, cresce nelle delusioni del centrosinistra. E Trump? C’entra eccome. L’ex presidente ha già definito Mamdani “il comunista che distruggerà la mia città”. Ma quell’attacco qui funziona da vaccino: nessuno vuole un sindaco percepito come “l’uomo di Trump”.
Mamdani ha già avvertito: “Incontrerò Trump, ma non lavorerò con lui a spese della città.” Traduzione: servono schiena dritta e tribunali, come in California e Illinois sul blocco alla Guardia Nazionale. Intanto per sabato la protesta “No Kings Day” si annuncia in oltre mille città. Sarà – secondo i media – la più grande manifestazione della storia americana. Lo slogan dei coloni della rivoluzione americana contro ogni sovrano torna nelle strade mentre il Paese vive nello shutdown e con un potere sempre più concentrato nella Casa Bianca. Lo Speaker del Congresso Mike Johnson ha bollato la protesta come “antiamericana”. Un paradosso: chiamare “antiamericano” chi invoca l’ideale fondatore della nazione. Il governatore della California Gavin Newsom ha risposto su X con un messaggio diventato virale: “Invito la nostra nazione a usare le marce di No Kings Day di questo fine settimana come una dichiarazione d’indipendenza contro la tirannia e l’illegalità che oggi dominano il Paese. Usate la vostra voce. Agite in modo pacifico. Proteggete voi stessi e la vostra comunità. Negli Stati Uniti non ci sono re”.
Nel frattempo, in Senato il californiano Adam Schiff ha denunciato “nove mesi sulla strada verso l’autoritarismo”, elencando censure, intimidazioni e uso politico dell’esercito. E mentre lo shutdown paralizza Washington, il leader democratico Chuck Schumer parla di “una Casa Bianca ostaggio della vendetta”. Lo prova anche l’ incriminazione di John Bolton, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump che poi ha scritto un libro sull’incompetenza e la pericolosità del commander in chief. Ma il repubblicano Johnson ha un’altra emergenza: la bomba a orologeria dei file Epstein. Da settimane lo Speaker impedisce il voto per la loro declassificazione, ufficialmente per “non distrarre il Congresso dallo shutdown”. Ma fino a quando potrà tenere il coperchio chiuso?
A Washington cresce il sospetto che la verità sui legami del caso Epstein possa far crollare un intero establishment economico e politico. Sul fronte estero, Trump recita la parte dell’uomo di pace: tregua Israele-Hamas, telefonata con Putin e annuncio di un nuovo incontro a Budapest, proprio alla vigilia della visita di Zelensky alla Casa Bianca. Il contrasto resta stridente: pacificatore fuori, incendiario dentro. Ed è qui che la corsa elettorale a New York assume valore nazionale. Se la città-simbolo d’America sceglierà un sindaco musulmano, socialista e pragmatico, capace di parlare a business e lavoratori, poliziotti e attivisti, l’effetto emulazione potrebbe segnare l’inizio di una nuova stagione politica. Mamdani non offre un’identità tribale, ma un elenco di promesse verificabili. Vuole essere giudicato su quello, non su un nemico da demonizzare. È l’esatto contrario del trumpismo, che prospera alimentando lo scontro con l’”enemy within”. Il pendolo americano si muove di nuovo. Abbandona la rabbia per le idee semplici, concrete e misurabili. Se New York sceglierà Mamdani, non sarà solo la sconfitta di Cuomo – e di Trump – ma l’inizio di una nuova grammatica politica per l’America, riassunta in un valore che è anche una promessa: dignità. Con uno slogan antico, ma sempre attuale: No Kings.
– foto IPA Agency –
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