(Racconto La conquista dell’Ovest di Jonathan Gabrieletto da Vicenza In Centro n. 8-2025).
L’aria della Vinlandia era così pura da pungere i polmoni, sapeva di resina e di sale, di un mondo nuovo e selvaggio. Erik Occhi-di-Ghiaccio sollevò l’ascia. Una lama forgiata nel cuore focoso di una fucina norrena, temprata nella neve e battezzata dal sudore di braccia possenti. La luce del sole, un sole che non aveva mai visto mappe genovesi, danzò per un istante sul metallo scuro. E poi, con un fendente feroce, la lama morse il legno. Un colpo secco, un crac che risuonò nella foresta silente. Un taglio netto, obliquo, un graffio sulla pelle del tempo. Erik, probabilmente, sbuffò e pensò solo al prossimo colpo, ignaro di aver appena firmato una pagina di storia, una che nessuno avrebbe letto per quasi mille anni. Passano i secoli. 471 anni, per essere precisi. Un’inezia per una roccia, un’eternità per gli uomini. Un altro navigatore giunse su quelle terre, un testardo sognatore genovese, con le sue tre caravelle e la benedizione di una regina. Piantò una bandiera, si guardò intorno e si prese il merito. E l’anno 1492 divenne un faro, la data che separava il prima dal dopo, l’ignoranza dalla scoperta. Ma la storia, si sa, è una vecchia signora eccentrica, che adora nascondere i suoi segreti più succosi nei dettagli più umili. E così, in un giorno qualunque dei nostri tempi, degli uomini in camice bianco, armati non più di spade ma di spettrometri di massa, si chinarono su un pezzetto di legno scuro e umidiccio. Un relitto, un frammento dimenticato, recuperato dal suolo canadese. E su quel legno, scorsero una cicatrice. La firma di Erik. Qui, la poesia si fonde con la fisica delle particelle. Quegli uomini non si limitarono a guardare. Interrogarono il legno, lo persuasero a raccontare la sua storia. Sfruttarono l’eco di un’antica tempesta solare, un evento cosmico che aveva lasciato un’impronta radioattiva precisa, un anello di crescita unico in tutti gli alberi del pianeta. E il legno, dopo un silenzio di quasi un millennio, parlò. E la rivelazione fu di una precisione spietata. L’orologio cosmico ticchettò all’indietro e si fermò sull’anno 1021 dopo Cristo. Dieci-ventuno. Pensateci. Mentre nel vecchio continente l’impero Bizantino andava disgregandosi, Erik Occhi-di Ghiaccio e la sua tribù vichinga stavano già costruendo un insediamento nelle Americhe. Con un anticipo di 471 anni sull’uomo del nuovo mondo, l’ascia di Erik aveva riscritto la storia. Un’ascia vichinga, rude e senza fronzoli, si era presa gioco delle caravelle e delle corone. È così: le storie più incredibili non sono quelle urlate a squarciagola, suonate dalle fanfare, incise nel marmo dei monumenti. Sono quelle sussurrate da un pezzo di legno, celate nella cicatrice lasciata da un colpo d’ascia. Un singolo, antico fendente che, con la sua silenziosa e affilata ironia, ci ha ricordato che il mondo è sempre stato più grande e più sorprendente di quanto le nostre mappe abbiano mai osato immaginare. E, in definitiva, che non si finisce mai di imparare.
Jonathan Gabrieletto