(Articolo di Eleonora Boin sulla sanità in Ue da VicenzaPiù Viva n. 299, sul web per gli abbonati).
Una materia complessa, sulla quale l’Unione europea e i ventisette si contendono competenze e potere legislativo in un contesto, però, in cui è sempre più difficile agire da soli.
La sanità è uno di quei temi sui quali all’Ue manca la cosiddetta “competenza esclusiva”. Secondo l’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, infatti, sono proprio gli Stati membri a doversi occupare del proprio sistema sanitario, seppur
coadiuvati dall’Ue. Ma allora perché parlarne?
Nel 2020 la pandemia di SARSCoV-2 ci ha messo davanti una realtà drammatica: i nostri sistemi sanitari, e con essi i nostri stessi Paesi, si sono rivelati fragili davanti alle centinaia di migliaia di morti, evidenziando con urgenza la necessità di una risposta collettiva. Nessuno Stato membro, soprattutto non l’Italia, era in grado, da solo, di approvvigionare le scorte necessarie di FFP2 e gel igienizzante. Senza parlare poi di sedersi singolarmente ai tavoli di trattativa con le case farmaceutiche che in quel momento stavano preparando i vaccini. È proprio da questo bisogno che è nato il progetto di una European Health Union, un’idea che trasforma l’Ue da semplice emittente di linee guida a regista di politiche e programmi condivisi, anche in materia di sanità.
EU4Health: un investimento strutturale
Nel maggio 2021 la commissione europea sotto la guida di Ursula von der Leyen ha lanciato EU4Health, il programma comunitario più ambizioso mai messo in campo per il settore sanitario. La dotazione economica iniziale ammontava a 5,3 miliardi, poi ridotti a 4,4 dal nuovo quadro finanziario pluriennale, una cifra importante per un progetto che non vuole essere un fondo emergenziale ma un vero e proprio investimento a lungo termine.
EU4Health finanzia progetti di rafforzamento della preparazione alle crisi, campagne di protezione e prevenzione (soprattutto nei confronti del cancro), interventi di lungo periodo sulle risorse umane e, in generale, tenta di rafforzare e integrare i sistemi sanitari nazionali.
L’obiettivo è duplice: evitare che una pandemia o un’epidemia metta ancora in ginocchio gli ospedali e, al tempo stesso, costruire sistemi sanitari più moderni ed efficienti, capaci di intercettare precocemente focolai e di garantire cure tempestive ovunque.

HERA, l’inizio del trend “anti-crisi”
Per accorciare i tempi di reazione, nell’autunno del 2021 è nata HERA (Health Emergency Preparedness and Response Authority, l’autorità responsabile della risposta e della preparazione alle emergenze sanitarie), non un’agenzia separata, ma una struttura nuova all’interno della Direzione Generale per la Salute e la Sicurezza alimentare (DG Sante) della Commissione europea. HERA è l’autorità responsabile delle politiche pubbliche in materia di salute pubblica, sicurezza alimentare e sanità animale e vegetale e ha il compito di monitorare rischi sanitari emergenti (dalle varianti virali agli eventi chimico-ambientali),
di finanziare in anticipo la ricerca su farmaci e vaccini e di stipulare contratti con le industrie per lo stoccaggio preventivo di attrezzature e principi attivi. Nel momento di massima allerta, HERA può attivare strumenti finanziari d’emergenza per l’acquisto rapido e centralizzato di contromisure mediche, evitando che ogni Stato corra per conto proprio come avvenuto nel 2020.
I dati sanitari al centro di uno spazio europeo
La mossa forse più rivoluzionaria è stata l’approvazione, il 26 marzo 2025, dell’European Health Data Space (EHDS), lo spazio europeo per i dati sanitari. Per la prima volta l’Ue disciplina il flusso transfrontaliero dei dati sanitari, definendo standard tecnici per cartelle cliniche elettroniche, referti e immagini diagnostiche. Il regolamento sull’EHDS istituisce un mercato unico per i servizi sanitari digitali, con criteri comuni di sicurezza e interoperabilità per le cartelle cliniche elettroniche. Ogni cittadino potrà non solo consultare i propri dati da un formato standard, ma anche decidere chi può accedervi e opporsi al loro uso per fini secondari. Lo scambio sicuro dei dati permetterà diagnosi e trattamenti migliori anche
all’estero, evitando esami ripetuti e costosi. Ricercatori e istituzioni avranno accesso a informazioni sanitarie anonime su larga scala per migliorare cure, sviluppare innovazioni e costruire politiche basate sui dati.
Affrontare i vari limiti: sovranità farmaceutica, diseguaglianze e mancanza di figure professionali
La sovranità farmaceutica è uno dei grandi problemi dell’Unione, a causa della forte dipendenza da produttori extra-Ue di principi attivi e antibiotici essenziali. Per risolvere questo limite, la Commissione ha lanciato gare per rilocalizzare impianti sul suolo comunitario, offrendo incentivi fiscali e garanzie di acquisto. L’obiettivo è costruire una “catena del farmaco” autonoma, che, in caso di chiusure o rallentamenti geopolitici, non paralizzi la disponibilità di cure salvavita. Tuttavia, le cose procedono a rilento e una vera e
propria sovranità farmaceutica è ancora lontana. Allo stesso modo, un’altra questione rilevante è la disparità nell’accesso alle cure nei vari Paesi. Infatti, nonostante i progressi esiste un divario enorme tra i Ventisette e persino all’interno degli stessi Stati. Per ridurlo sono stati stanziati fondi per la prevenzione in zone rurali o socialmente svantaggiate, ma senza un monitoraggio costante e interventi mirati, rischiano di rimanere misure episodiche. La terza problematica è che tra le corsie d’ospedale e i laboratori mancano migliaia di medici, infermieri e tecnici: un problema acuito soprattutto negli Stati dell’Europa sud-orientale come l’Italia. Per quanto riguarda gli infermieri, ad esempio, i dati Ocse ne evidenziano una presenza molto bassa (6,5 ogni mille abitanti).
Una percentuale molto inferiore alla media europea che Ocse fissa a 8,4 ogni mille abitanti. Ma questo è spiegabile forse anche dagli stipendi: lo stipendio italiano medio di un infermiere è circa 32000 l’anno, ovvero 8000 euro in meno della media Ocse. Di questo problema forse però, dovremmo chiedere conto ai nostri attuali e precedenti governi, con buona pace dell’Ue.
Verso l’operatività concreta
La vera sfida ora è trasformare leggi e finanziamenti in servizi tangibili. Bruxelles definisce standard e stanzia risorse, ma sono, il governo, le regioni (che secondo il titolo V della costituzione hanno competenza in materia di sanità), gli ospedali e i medici a doverli tradurre in salute effettiva: referti disponibili in modo rapido in un altro Paese (ma in Italia spesso anche all’interno del Paese stesso), terapie e farmaci alla portata di tutti e una rete di allerta rapida per nuove crisi. Solo così il cittadino – dalla Lapponia alla Sicilia – potrà
percepire il valore di una comunità unita, dove la salute non è un privilegio legato al luogo di nascita, ma un diritto garantito da un unico grande sistema di protezione. In fondo, il successo non si misurerà sul numero di regolamenti approvati a Bruxelles, ma sulla capacità di salvare vite, limitare danni e far sentire ogni europeo al sicuro. Se domani dovesse bussare una nuova emergenza, la prova del nove sarà la rapidità e l’efficacia della risposta: un vero “European Health Union” non potrà più attendere. La strada è oggettivamente lunghissima, soprattutto se si parte da un Paese come il nostro in cui la situazione sanitaria in alcune zone è al limite del ridicolo, resta da sperare però, come diceva qualcuno, che il vento veramente soffi ancora.