Sulla cantina ghiacciaia del Brolo si è favoleggiato per secoli ingarbugliando storia e leggenda. Un tempo, il luogo era inavvicinabile e tutti lo guardavano curiosi sbirciando oltre un alto muro. Si credeva fosse un segreto passaggio collegato al castello della Rocca dei Vescovi sulla collina e alla Villa Valmarana al piano.
Nel primo Medioevo la famiglia Aleardi acquistò dal vescovo di Vicenza un appezzamento di terreno alla Rocca a ridosso del primo circuito delle mura castellane. Nei primi anni del 1600, Prospero Valmarana acquistava, dalla famiglia Aleardi, una casa padronale in contrada Cantarane nel borgo di Altavilla con un ampio brolo di circa tre campi cintato da muro. Nell’atto di legge: “ … un brollo detto il Cavallo tutto chiuso da muro”.
Di quest’alto muro di sasso a varia lavorazione esiste ancora un lungo tratto. Sicuramente la casa, ampliata e modificata da Prospero, è da riconoscere nella Ca’ Granda o Domus Magna ben disegnata nelle mappe del 1672 e del 1678 di Matteo Alberti. L’ampio terreno si identifica oggi nel Parco Comunale del Brolo. Chi vi accede dall’ingresso principale di viale dei Morosini nota subito, sulla sinistra, una strana costruzione inglobata nella collina.
È la cantina ghiacciaia dell’antica casa padronale Ca’ Granda poi trasformata nella Villa Valmarana dall’architetto Francesco Muttoni incaricato del progetto nel 1697. A quei tempi, lì davanti dove oggi si apre la piazza, verdeggiava un ampio stagno, regno delle rane. Per questo il toponimo riportato negli antichi atti, peraltro non ancora del tutto abbandonato, è Cantarane. Molti conoscono l’esterno della cantina ghiacciaia, ma pochissimi vi sono entrati. Nessuno mai, a quanto so, aveva eseguito il rilievo dei luoghi. Entreremo in questi spazi cercando di farci raccontare da rocce e muri la storia e le improbabili leggende. Occorre conoscere che la famiglia Valmarana, non ancora in possesso del titolo nobiliare, possedeva in Altavilla ben 889 campi vicentini, pari a 356 ettari, con case dominicali, stalle e greggi. I locali, oggi desolatamente vuoti e abbandonati, erano indispensabili per una breve conservazione di prodotti alimentari.
Agli inizi del 1900 il Comune costruirà, in centro paese, una vera ghiacciaia ancora esistente e visitabile. Un breve vialetto tagliato nella collina inquadra una porta e due finestre a lato, protette da inferriate, che paiono scavate nella roccia. Pare vogliano inghiottire il visitatore in una misteriosa oscurità. All’inizio, sulla destra, ormai imbrigliata alle radici di un albero si osserva quello che resta di un’antica macina da mulino in pietra, memoria dei tanti mulini che nel medioevo operavano sul territorio al Salgareto, in contrada del Pisolo, a Caldimolino presso la Fons Lapis, alle Ca’ Perse, in via della Febbre sul Retrone a Sant’Agostino.
Chissà cosa si conservava nel primo grande locale costruito in sasso e voltato a botte. Senz’altro prodotti che abbisognavano di luce schermata e di aria che, entrando dalle aperture, circolasse stimolata dallo sfiatatoio a settentrione ancora visibile tra i cespugli sul pendio della collina. Terra e vegetazione sopra la volta del soffitto mantenevano una temperatura costante e una regolata umidità.
Da qui, in continuità, una bassa apertura conduce alla “grotta superiore” scavata nella roccia calcarea. Misura circa sette metri per quattro, alto due metri. Non c’è niente di particolare se non una piccola nicchia e il fascino e le fantasie che il tempo ha costruito. Una stretta e ripida scala si tuffa nel buio di un percorso verso una cavità più in basso. Impossibile non ascoltare i passi mentre si scendono i gradini di pietra nel silenzio che circonda. Paiono scandire il ritmo dell’antico del tempo. Così la scala si popola di passato e di persone che l’hanno consumata. Dentro di me “suona” questa scala deserta che porta nel buio profondo di sotto.
Ai lati si aprono nicchie, ripiani, affreschi di muffe. Tutto sembra non appartenere più a noi, appartiene al tempo e vivrà ancora. Qui la realtà quotidiana si sposta di lato e lascia liberi, si entra nel tempo mitico dove le cose si rigenerano, gli atomi corrosi si mettono in movimento. Tutto appare dormiente, ma con dentro il lievito di recuperare memorie e costruire futuro. Si scende in quello che io chiamo naòs, la parte più interna e nascosta. E’ il luogo della leggenda popolare che lo collegava al medioevale castello in alto e con la villa antica al piano.
Il soffitto è molto basso, se alzi una mano puoi toccare l’umida frescura. Qualche gancio di ferro rimanda a carni o insaccati appesi per una naturale maturazione. Una grande nicchia forse accoglieva bottiglie di vino posto a invecchiare. Durante l’ultima guerra, i soldati tedeschi, suggestionati dalla leggenda popolare e temendo fughe o incursioni incontrollabili, esplosero delle mine per verificare occultati passaggi. Le macerie si vedono ancora. Non trovarono nulla, tutto finiva lì, addosso alla roccia, dove tutto potrebbe cominciare nell’esplosione di un futuro programmato. Intanto si potrebbe operare almeno con un lavoro di pulizia e sgombero. Nel percorso di ritorno dalle buie profondità verso la luce e il respiro verde del brolo, confido ardentemente in “illuminazioni” che aprano questo luogo a un qualche utilizzo. Spero che gli spazi di queste antichissime cantine siano in qualche modo recuperati per un impiego da scegliere con cura. O almeno, siano resi agibili per visite guidate.
Di Giorgio Rigotto Da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022