Nella Vicenza dell’800 fece scandalo tra i benpensanti il comportamento di Fiorenza Vendramin, che non solo non celava le sue idee rivoluzionarie, ma all’arrivo dei francesi, lasciò l’autoritario e retrivo ambiente familiare. Sposa forzata del marchese vicentino Filippo Luigi Sale Manfredi Repeta, “pastorella” d’Arcadia con il nome di Andosine Erigenia, socia dell’Accademia dei Riposti di Cologna Veneta, divenne amante di un ufficiale delle truppe in servizio nella città, abbandonando il marito e andando a vivere con lui.
Il contesto storico-sociale
Lo sfondo nel quale dobbiamo collocare le vicende di Fiorenza Vendramin Sale è quello di una società nella quale le donne avevano conquistato una posizione importante in campo culturale, tanto da far attribuire al Settecento l’appellativo di “secolo delle donne”. In ogni campo della produzione culturale erano presenti significative figure femminili: nel giornalismo, nella poesia, nel teatro, nella musica, nella pittura, perfino nelle scienze e nella matematica, dalla giornalista Elisabetta Caminer Turra, direttrice del “Giornale Enciclopedico”, alla pittrice Rosalba Carriera, alla scrittrice Gioseffa Cornoldi Caminer, redattrice de “La donna galante ed erudita”, a Luisa Bergalli, moglie di Gasparo Gozzi, autrice de “L’almanacco in difesa delle donne”, alle poetesse Silvia Curtoni Verza e Isabella Teotochi Albrizzi – la “bella Temira” apprezzata anche da Giacomo Leopardi – a Giustina Renier Michiel, che si dilettava di scienza e filosofia.
Si trattava di donne poliglotte, impegnate spesso in attività di traduzione di opere letterarie europee, come la Michiel, che traduce Shakespeare, o Elisabetta Caminer, che fa conoscere Madame De Genlis. Il loro ruolo è importante soprattutto sul piano della mediazione culturale, in virtù della funzione esercitata dai salotti, luoghi precipui della socialità settecentesca gestiti appunto dalle salonnierès, particolarmente importanti nel contesto europeo anche per la moda dei viaggi letterari, per il fascino che continua ad esercitare l’Italia, per il ruolo internazionale giocato da Venezia, per le caratteristiche sovranazionali delle élites culturali.
L’incalzare degli eventi politici, le rapide trasformazioni messe in moto da Napoleone le coinvolgono in modo diretto, sollecitandole ad una partecipazione intensa, condivisa con gli amici, i parenti, gli sposi. Il sostegno al nuovo corso democratico è espresso in modi e forme diverse: dalla partecipazione alle feste e alle manifestazioni rivoluzionarie, all’adozione di una nuova moda e di un nuovo stile di vita; dalla rottura di legami familiari, alla scrittura di testi e appelli rivoluzionari, segnali tutti di quella aspirazione alla libertà personale che si era manifestata già negli ultimi decenni del secolo, con l’insofferenza verso il potere patriarcale, con aspirazioni di libertà nelle scelte matrimoniali, con un aumento delle richieste di divorzio.
Un velo di oblìo ricopre la storia di questa donna, le sue egloghe, le sue memorie, i suoi drammi. Il ricordo di lei si è in parte perso, sia per il naturale passare del tempo, sia per la intenzionale volontà dell’uomo di disperdere ciò che si ritiene contaminato dal peccato. Ma non era facile, però, che la polvere cancellasse del tutto il nome di Fiorenza Vendramin. La sua breve esistenza fu caratterizzata da un’ansia di ribellione che determinò tutta la sua vita burrascosa. Proveniente da una illustre, ma decadente casata veneziana, era andata in sposa per opportunità familiari al ricco marchese vicentino Luigi Sale, grazie ad una mediazione di Carlo Cordellina, vecchio amico di famiglia e famoso avvocato del foro veneziano.
Fiorenza si adattò alla nuova situazione che all’inizio probabilmente l’attrasse: brillante per la bellezza, lo spirito e la cultura, diventando la marchesa Sale, divenne anche regina di Palazzo Repeta, la sua principesca dimora, della città, della moda. La nipote Luigia, ne fa una descrizione da una piccola miniatura conservata in famiglia: “i capelli neri della marchesa Fiorenza, in magnifica copia di innumerevoli anella venian su in natura, sostenuti mollemente da una zona o benda celeste, secondo costumavano alla Tito. Un piccolo sciallo o fazzoletto da spalle, ingroppato per di dietro, dissimulava, senza alterarne la grazia, il corpicciolo svelto ed eretto, quale arbusto che si dilata in corimbo”.
Nel 1794 Fiorenza partorì una femmina e questo fu un evento che segnò probabilmente i rapporti con il marito ed i suoceri che pretendevano un maschio. La vecchia marchesa non volle vedere la creatura per cinquanta giorni e il vecchio marchese vietò ai familiari di pronunciare in sua presenza il nome della neonata e quindi di ricordare “l’avvenimento ch’era succeduto pochi giorni prima a funestare la sua nobilissima casa”.
Perfino i servitori di casa accolsero malamente la notizia della nascita della bambina: infatti per l’arrivo di un maschio ognuno di loro avrebbe ricevuto, come da usanza, uno zecchino d’oro, mentre per quello di una femmina un ducato veneto d’argento. Fiorenza comprese ben presto “tutta l’enormità del sacrificio che avevano voluto da lei”, cioè di sposare un uomo che non amava e che voleva da lei soprattutto la garanzia di dare un seguito al nobile casato, ma non si abbandonò né all’avvilimento né alla disperazione. Dopo alcuni mesi trascorsi studiando ritirata nel suo appartamento e accontentandosi della compagnia di alcuni “vegliardi” ben visti alla famiglia, accettò per un paio d’anni il cavalier servente, secondo i desideri del marito e dei suoceri, un giovane nobile della mediocre famiglia degli Arrigoni.
Cominciò a studiare pittura, riprese l’attività della poesia e della traduzione dal francese di autori come Voltaire e Montesquieu. Colti personaggi vicentini divennero frequentatori del suo salotto e delle sue conversazioni: Giambattista Velo, Lodovico Carcano Volpe, Alessandro Trissino, Francesco Testa. Le fu attribuita una serie infinita di amanti, l’ultimo dei quali, con l’arrivo dei francesi, fu appunto il capitano Lasalle.
Tutta Vicenza ne parlava, ma Fiorenza, “avida” di celebrità cercava le occasioni per far parlar di sé in una città che non chiedeva altro. “Dirò che sempre inquieta, porto le mie idee al di là dei confini che la ragione, la morale, l’onestà, la riflessione le pongono d’ordinario” spiegherà Fiorenza nelle sue memorie “A volte la sola idea di fare una cosa che tutto il mondo condannerebbe, mi dà una forza e un indirizzo particolare per pervenire allo scopo.
È a causa dei divieti che il mio animo prende slancio”. La nobiltà vicentina, molto conservatrice, non poteva sopportare, per esempio, che gli appartenenti ai suoi ranghi sedessero sulle panche delle osterie. Ma con l’arrivo dell’armata francese tutti i giovani aristocratici, sapendo quanto questo potesse dispiacere ai vecchi, si riversarono nel- le taverne, nelle “casanze” che erano stanze riservate all’interno delle taverne stesse. Una sera volle andarvi pure Fiorenza, nonostante gli amici tentassero di dissuaderla, anzi per dispetto e perché la cosa avesse ancor più pubblicità, con il carbone scrisse sul muro dell’osteria: “La marchesa, e quattro amici furono a cena qui in Casanza ben sarebbero felici se a dispetto dell’usanza non andasser per la bocca di qualche lingua sciocca”.
“Caro lettore” commenta la nipote Luigia “tu li vedi i buoni borghesi di Vicenza incontrarsi agli angoli delle vie, arrestarsi, ghermirsi l’un l’altro il polso, mormorando con un misto di sorpresa e di convinzione: – A gavìo sentìo? …la marchesa è sta in Casanza … – E, fatto un moto pauroso, scantonare rapidi a testa bassa come a dire: – che tempi!”. Nel novembre del 1797 l’armata francese partì, cessarono le istituzioni democratiche “e tutto lo splendore di quella vita affascinante, guerriera, potentissima e creatrice”.
La famiglia Sale “umiliata” dalle eccentricità di Fiorenza, con l’arrivo degli austriaci che avrebbero riportato “l’ordine civile e religioso”, pensava già a por fine a quel comportamento e anche a vendicarsi “perché il marchese non era poi così dolce di sale da tollerare gli scandali” e la suocera era conosciuta come “vendicativa”.
Fiorenza chiese ad un suo amico, il conte Niccolò Loschi, il volume dell’enciclopedia che conteneva la voce “oppio”. Lettone il contenuto, si procurò la dose indicata e la prese la sera del 27 dicembre 1797, mentre la sua famiglia “era intenta alla conversazione ordinaria”.
I cronisti del tempo, compreso lo zio acquisito Tornieri Arnaldi Arnaldo, dedicarono all’accaduto appena un cenno, senza alcun riferimento al fatto che in questo modo Fiorenza si era data la morte da sé. Per capire tale scelta dei cronisti va tenuto presente che secondo il diritto canonico il suicidio comportava la privazione della sepoltura ecclesiastica, che però poteva essere concessa nel caso in cui il fatto fosse noto solo ai membri della famiglia i quali, ovviamente dovevano evitare la notorietà della notizia. Mentre in Francia il colpevole era privato della sepoltura e il cadavere era trascinato su una grata, appeso per i piedi e in seguito condotto alla discarica, il diritto veneto non puniva il suicidio quale reato, restando soltanto l’infamia unita alla memoria. Il disonore del suo gesto doveva comportare una duplice morte: quella fisica e quella sociale. Il ricordo di lei avrebbe dovuto, quindi, scomparire. (tratto dal “Biblionauta” della Biblioteca Bertoliana del 4 Marzo 2014)
Da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022