In questa fase della vita civile del Paese desertificata di valori e povera di passioni, la figura di Antonio Giuriolo continua ad irradiare luce. Proverò a delineare alcuni tratti della personalità di Giuriolo attraverso il contributo alla ricostruzione della sua figura che ne hanno fatto Luigi Meneghello ne “I piccoli Maestri” e ne “Fiori Italiani” e Norberto Bobbio nelle due commemorazioni di Vicenza del 26 settembre 1948 e di Bologna del 13 dicembre 1964, facendo parlare essenzialmente loro, che conobbero Giuriolo e lo frequentarono.
L’eccezionalità, direi l’unicità della figura di Giuriolo non vive solo nella consapevolezza dei posteri, ma risalta innanzitutto dalle valutazioni dei suoi contemporanei. Nel crogiuolo della solitudine degli antifascisti prima e della partecipazione corale dei partigiani alla guerra di liberazione poi si formarono personalità grandi e uniche, ma Giuriolo spicca tra queste in quanto scrive Bobbio “rappresentò l’incarnazione più perfetta che mai io abbia visto realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e vita morale”: i valori etici di Giuriolo, in parte ereditati dalla famiglia, ma costretti a maturare e a dispiegarsi nel contesto vincolativo della dittatura e nel connesso dilagare di comportamenti opportunistici e/o acritici trovavano nella cultura un alimento fondante della costruzione della propria spiritualità.
Dunque una moralità non ripiegata nella contemplazione di sé stessa, una cultura non disincarnata né avulsa dagli accadimenti e dai processi storici, ma una fusione perfetta di etica e intelletto e di pensiero e azione che trova approdo, senso, compimento nella lotta politica finalizzata ad emancipare il popolo italiano dalla cattività della tirannide, a ritrovare un sentiero di dignità e a generare un destino di libertà. Di vera e propria “religione della libertà”, per utilizzare una espressione crociana, è giusto parlare a proposito di Toni Giuriolo perché la libertà “era l’alimento stesso della vita intellettuale e morale” scrive Luigi Meneghello ne “I fiori italiani”. Libertà come nucleo esistenziale, libertà come fondamento della comunità umana, libertà come base originaria e nello stesso tempo frutto delle istituzioni politiche, valore supremo senza il quale nulla ha senso.
E fu poi per “ubbidire alla legge morale” che Toni Giuriolo cadde colpito a morte il 12 dicembre 1944 sui monti dell’Appennino emiliano; ogni uomo è probabilmente avvinto al suo destino e il destino di Toni era il sacrificio della vita né si può dire che questo esito fosse stato da lui escluso perché – come ha bene chiarito Claudio Pavone ne “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza” – a spingere quegli uomini sulle montagne fu una “scelta” deliberata, una decisione tragica e irreversibile, un atto di volontà consapevole.
In questo c’è la grandezza: nel passaggio da una moralità concepita come faticosa edificazione della propria personalità, come coerenza e come perfezionamento interiore ad una moralità storicamente significante in quanto concretizzata nel dono della propria vita all’umanità per emanciparla dalla oppressione e riscattarla alla libertà. Toni Giuriolo – scrive Meneghello – era “una personalità straordinaria animata da forze miracolose”. Aggiunge sempre Meneghello: “Esteriormente era restato un uomo schivo e poco appariscente, ma conoscendolo ci si trovava davanti a un prodigioso e misterioso maestro. Ciò che toccava tornava vivo. Una tranquilla potenza si generava in ogni cosa che il suo animo accoglieva”.
L’evocare i concetti di miracolo, di prodigio richiama qualità quasi magiche: tale era la forza e l’irriducibilità unica della sua personalità che sembrava astrarsi dalla pochezza della normale umanità. Nel duro disciplinamento intellettuale e politico dell’epoca fascista l’estraniazione di Giuriolo ha dunque qualcosa di magico, la sua singolarità come individuo si staglia nel grigiore dell’uniformità coatta ed è una unicità talmente potente da apparire quasi avvolta nell’alone di un mondo totalmente altro, espressivo di una radicale alterità.
Di carattere era pacato e riflessivo, era – dice Norberto Bobbio – una “presenza insieme così solida e tranquilla, così forte e serena” e in lui era riconoscibile uno “schivo candore”, unitamente alla “sobrietà di gesti e di atteggiamenti”. Giuriolo – aggiunge Meneghello – “aveva un senso schietto e cordiale dell’amicizia, stava volentieri con gli amici, gli piaceva ridere con loro”, pur se talvolta si intravedeva un’eco di lontana e inespressa sofferenza, una sorta di “malinconia remota”.
È sempre Meneghello a spiegare la formidabile influenza che lui esercitava sui suoi discepoli: “era essenzialmente un esempio”. Su di lui si imperniava il piccolo gruppo di studenti che gli si raccolse attorno nella primavera del 1944. Scrive Meneghello ne “I piccoli maestri”: “Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutt’altra cosa: Antonio era un italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva: eravamo catecumeni, apprendisti italiani”.
Il rapporto tra Giuriolo e i suoi amici discenti, “educatore senza cattedra” – secondo la bella espressione di Bobbio – il cui insegnamento si svolgeva non nelle aule scolastiche ma negli spazi aperti di Vicenza e nel corso di conversazioni informali e anche casuali era una relazione che non lasciava indifferenti, ma generava un cambiamento, che però non veniva imposto né suggerito forzosamente (“Antonio ci lasciava cambiare per conto nostro, senza intervenire a sollecitarci dall’esterno” osserva Meneghello), ma scaturiva dallo spessore di cultura e di sostanza etica delle idee in sé, ma soprattutto potremmo dire che Giuriolo era ciò che insegnava e il contenuto del suo dire era Giuriolo: in realtà lui disvelava sé stesso e a costituire il contenuto dei suoi insegnamenti era più che altro la sua spiritualità, una spiritualità di natura religiosa.
L’attitudine antiretorica di Giuriolo, il suo adottare un registro morale e comportamentale lontano da ogni lezioso autocompiacimento, il suo consapevole rigetto di un universo epopeico sono state icasticamente disegnate ne “I piccoli maestri” nell’episodio dell’incontro nel Bellunese località denominata California tra i partigiani guidati da Giuriolo con un efficiente e bene armato reparto garibaldino formato da partigiani “laceri, sbracati, sbrigativi, mobili, franchi, incarnazione concreta delle idee – dice Meneghello – che noi cerchiamo di contemplare”. Guidava questo reparto di partigiani comunisti un uomo “piuttosto giovane, robusto, disinvolto” che “aveva scritto sul viso: comandante, aveva calzoni da ufficiale, il cinturone di cuoio, il fazzoletto rosso. Era ben pettinato, riposato, sportivo cordiale”. Antonio Giuriolo aveva invece vesti dimesse e “sembrava un escursionista”. Il comandante garibaldino si avvicina con fare lieto, alza il pugno chiuso e dice con forza e gioia “Morte al fascismo”. “Vibrava di salute, fierezza ed energia” scrive Meneghello. Ebbene Toni Giuriolo avanza e con imbarazzo tende la mano e dice “Piacere, Giuriolo”. L’episodio realizza plasticamente la scelta netta di Toni di rifiutare la retorica, quella retorica che era attributo tipico del regime fascista, quella retorica che risultava tanto più pericolosa quanto più aveva esercitato una seduzione su tanta parte del popolo italiano.
Il recente, imperdibile lavoro di Renato Camurri “Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo”, un libro che tutti dovrebbero leggere, si presenta come uno snodo ineludibile nella conoscenza del pensiero di Giuriolo, dello svisceramento del suo percorso umano, morale, e intellettuale e merita di essere veicolato e promosso ben oltre la comunità scientifica degli storici, degli addetti ai lavori, degli studiosi dell’antifascismo e della Resistenza proprio perché Giuriolo assume il valore etico-politico di una figura in qualche modo collettiva capace di parlare – per l’attualità delle sue riflessioni oltre che per l’esemplarità della sua vita e della sua morte – anche alla generazione dei c.d. “millenials” così privi di punti alti di riferimento nel presente e così assetati dunque di risorse etiche; occorre oggi ricreare una cultura politica, mobilitare una riflessione comune ma complessa ed estesa, costruire una riflessione sui postulati fondamentali dell’agire politico senza sradicamenti dalle concrete dinamiche storiche e quindi con un forte ancoramento al principio di realtà.
Il libro di Camurri si presta ottimamente a questa operazione di civilizzazione e di eticizzazione perché si configura come un lungo viaggio alla riscoperta dell’uomo e dell’intellettuale Antonio Giuriolo nella contestualizzazione di quei tempi difficili. Giuriolo è stato per lunghi anni considerato un “corpo estraneo” nel Vicentino anche per la rimozione del contributo politico e militare del “giellismo” alla guerra di liberazione e dell’apporto culturale dello stesso all’elaborazione della Carta Costituzionale e alla costruzione dell’Italia repubblicana. In seguito Giuriolo è stato gradualmente avvolto in una aureola mitica e quasi sacrale in una visione destoricizzata a partire dalla commemorazione di Bobbio e attraverso la tappa fondamentale del “canone” meneghelliano.
Il Giuriolo che Camurri dipinge non è proiettato in una dimensione metastorica, ma appare legato ad un preciso contesto – il dominio fascista nella fase matura e declinante del regime – e ad una precisa scelta: quella di farsi “esule in patria” per immaginare prima e realizzare poi un fu- turo di radicale discontinuità. La formazione di Giuriolo è un processo ampio e stratificato, un “viaggio interiore” che lo porta a far scaturire l’azione del pensiero, un dipanarsi della persona che dall’intreccio di morale e cultura fa sgorgare la sensibilità civica, l’impegno politico e la lotta armata quale premessa necessaria del riscatto (“Noi abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di prendere le armi contro questa patria presente, per realizzarne una migliore nell’avvenire” scrive Giuriolo).
E tutto ciò nella solitudine imposta dalla durezza della repressione, dal dilagare dell’assoggettamento psicologico al regime, dalla stessa difficoltà di crearsi una autonoma cultura critica nelle temperie di quegli anni. Ma è soprattutto l’analisi del corpus dei Quaderni dove Giuriolo annota le sue riflessioni e appunti su letture e suggestioni intellettuali da lui frequentati che evidenzia un percorso di interpretazione della tirannia e di innamoramento della libertà. Una “officina” – come argutamente è definita da Camurri – in cui trovano spazio classici greci e latini (si vedano ad esempio gli appunti su Tucidide, Demostene e Tacito) e che ha nella rilettura dell’opera del Machiavelli in chiave di attualizzazione politica un pilastro fondamentale.
Camurri inoltre indaga con grande capacità di approfondimento, ma anche di scomposizione e distinzione sull’influenza sul pensiero di Giuriolo dei contemporanei per giungere a dimostrare le forti assonanze tra le riflessioni di Giuriolo e l’ariosa e innovativa elaborazione contenuta “Il socialismo liberale” di Carlo Rosselli a partire dal concetto di libertà: una libertà come divenire e sviluppo, come educazione perpetua al suo esercizio, come valore avente un fondamento sociale, come premessa di cui l’uguaglianza è compimento, come autogoverno e promozione del pluralismo, delle autonomie e dei diritti dell’individuo rispetto alla statualità.
Più problematico invece appare il rapporto con le tesi di Aldo Capitini (da cui lo separava da un lato l’approccio alla nonviolenza, dall’altro una attitudine pragmatica e una apertura alla concretezza delle dinamiche sociali tipiche dell’azionismo e lontane dall’utopismo di Capitini) e con la filosofia di Guido Calogero su cui Giuriolo esprime valutazioni prevalentemente critiche. L’incursione del viaggio di Giuriolo nel pensiero di alcuni autori stranieri legati all’umanesimo socialista ma lontani dal rigido dogmatismo marxista ed espressione dell’innovazione culturale dello “Spirito degli anni Trenta” quali Henri de Man e Hyacinthe Dubreuil proiettano il giovane intellettuale vicentino nel vivo di una ricerca inedita di soluzione ai problemi sociali ed economici aperta alle suggestioni più innovative della cultura europea del tempo.
Espressione di un umanesimo di estrazione rosselliana socialista e liberale, “eretico”, libertario e antitotalitario, Antonio Giuriolo – esponente del Partito d’Azione – ha ancora molto da raccontare a noi che viviamo in un’epoca così impoverita di personalità capaci di esercitare un elevato magistero morale e così sradicata da orizzonti di senso politico. Ecco perché Giuriolo non è una figura confinata nel passato, ma cammina con noi, ci è accanto, ci interpella, ci contesta, ci indica un futuro, ci impegna e ci costringe e vuole bene anche al nostro tempo come ha voluto bene al tempo suo.
Di Gigi Poletto da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022